
Ore ventuno e ventuno spaccate, si spengono le luci della Sala Santa Cecilia dell’Auditorium romano e si va in scena: il palco è minimale, di un bianco marmoreo, la sua superband alle spalle (con l’aggiunta della violoncellista Sofia Volpiana) vestita di nero e poi lui, Achille Lauro, il co-protagonista della serata interamente vestito di rosso. È la primissima data del suo tour unplugged nei teatri che farà di nuovo tappa a Roma il 26 gennaio e il 17 febbraio, assieme ad altri appuntamenti nel mezzo. «Sono contento di poter presentare questi brani svestendoli completamente, tornando alla semplicità di come sono nati», dice. Il concerto inizia con Che sarà, ultimo singolo rilasciato lo scorso novembre. Si scaldano i motori con 1969 e Femmina: il pubblico canta forte senza alcuna differenza se non di altezza e distanza tra platea e spalti, è attento e pende dalle sue labbra. C’è chi si alza su Bam Bam Twist e balla come fosse nella versione live del video musicale, ma è subito dopo, sul ritmo rockabilly di Barrillete cosmico, che la band dà il meglio.

Anche gli spettatori però hanno la loro parte sulla canzone del giorno, Domenica. «È il vostro momento, io faccio le strofe e voi i ritornelli». Non è un qualcosa di più intimo, piuttosto è una celebrazione più seria della sua musica. Così Lauro fa un salto nel passato e, accompagnato solamente da piano e violoncello, esegue Ora e per sempre e Cenerentola in versioni davvero suggestive e malinconiche, quasi sofferte: la parte più vulnerabile del suo lato artistico, quella legata agli inizi, esce allo scoperto ed è proprio questa a renderlo sé stesso più di qualsiasi cambio d’abito sanremese. Seguono Come Me e una versione più cantautorale di Stripper, dove il violoncello è lo strumento dominante e un riferimento a Personal Jesus dei Depeche Mode si fa più intuibile. La superband torna sul palco per un medley composto da Me ne frego, Cadillac e Maleducata, ma da chitarre slide e batterie più aggressive si passa alla riconoscibilissima melodia di Marilù durante un assolo di pianoforte, canzone che il pubblico percepisce quasi come un inno e arrivando, con le loro voci, quasi a sovrastare quella del suo interprete.
E poi il momento più unplugged di tutto l’unplugged: i chitarristi della superband avanzano accanto a lui sulla passerella per un secondo medley composto da Zucchero, Ascensore per l’inferno e A un passo da dio, quest’ultima tra le preferite in assoluto di Lauro. Proprio come negli anni Novanta, proprio come su MTV, sfidando il paragone coi live memorabili di Alice In Chains, Nirvana e Pearl Jam. «Le canzoni ci servono per fotografare quel che abbiamo dentro e fuori. La musica è questo, amare come amate voi, sentire come sento io e scriverlo nel modo più sincero possibile», dice presentando 16 Marzo. Siamo quasi alla fine ed è il momento di Rolls Royce: il pubblico non riesce a star fermo, si alza e si scatena; nell’encore Rolling Stones e C’est la vie in una veste teatrale che lascia il giusto spazio alla band nella coda strumentale finale. Esco dalla sala e penso che sì, forse è vero che Achille Lauro non è un cantante ma semplicemente perché la sua arte la interpreta al meglio, come nelle migliori pièce teatrali.