“L’essenziale è invisibile agli occhi” scrive Antoine de Saint-Exupéry ne Il piccolo principe. Mentre questa frase diventava iconica, scivolando poi nell’aforismo da Facebook, noi piccoli esseri umani ci rendevamo sempre più conto che non è solo l’essenziale ad essere invisibile agli occhi. Siamo proprio noi a volte, in tutta la nostra carne e le nostre ossa, ad essere invisibili agli altri. Nella speranza di essere guardati diventiamo creature meravigliose, disfunzionali, felici, tristi. Chi vorrebbe essere invisibile? Nessuno, direte voi. Ma allo stesso tempo tanta visibilità può anche portare a perdersi. Guido Luigi Senia (da qui in avanti Il Tre) voleva essere visto per la sua musica, e con il successo la visibilità è arrivata. Dopo il suo primo album , Ali, quattro dischi di platino e due oro, il rapper romano torna con Invisibili. Un titolo che è una chiara dichiarazione: gli invisibili siamo tutti noi. Ed è ora di farci vedere.
La prima e unica volta che ci siamo incontrati, prima di questa, presentavi il repack di Ali sulla terrazza di Warner. Sono passati quasi esattamente due anni, come sono stati?
Belli, ma tosti dal punto di vista musicale. Ho sperimentato tanto, attraversato le solite fasi di dubbi, che abbiamo tutti. E adesso eccoci qua, con questo nuovo album.
Un progetto che è molto ben collegato, un aspetto che non trovo per nulla scontate. Si riconoscono le due anime distinte, ma i brani si parlano molto tra loro.
C’è la parte piagnona (ride, ndr.), più pop, sperimentale e che racconta la mia evoluzione, e quella invece rap, che invece esprime il mondo da cui arrivo. Questa dualità mi piace portarla soprattutto live, dove ci sono due momenti: quello più da “guerra” e quello più riflessivo. È già stato così con Ali e lo sarà ancora di più con questo album.
La dimensione live significa molto per te.
L’obiettivo principale di fare musica è portarla dal vivo, perché se non ci fossero i live non ci sarebbe la risposta del pubblico. Mi sono reso conto che senza tracklist e disco, comunque i biglietti sono stati venduti e questo mi fa piacere, perché significa che le persone non vedono l’ora di assistere ad un mio show. Per me il live è tutto, mi sento di essere nel mio posto nel mondo.
Facciamo una considerazione, scevra da giudizi: qualche settimana fa ho visto su Instagram la storia di un rapper che si lamentava dei fan che ai concerti gli chiedono brani dei primi album. Tu cosa ne pensi?
Da una parte lo capisco, è una lettura del live che non trovo sbagliata. Quando sono dal vivo cerco di fare più che posso, a prescindere da chi c’è adesso e chi non c’era prima. Non tutti i live che faccio sono sold out, è un dato di fatto ed è normale. Ma anche se il posto non è pieno, io voglio cantare e voglio sentirmi bene.
Amen, traccia che apre il disco, è una chiara dichiarazione d’intenti. Dici che non è facile fare l’artista, perché?
La figura dell’artista è troppo sottovalutata. Tutti si sentono artisti, qualsiasi cosa facciano. Ma come dico anche in Techno, quelli che fanno i video su TikTok non sono artisti, sono un’altra cosa. L’arte non va mai sminuita e la parola artista andrebbe contestualizzata meglio, perché il rischio è non averne cura e offenderla.

Il concetto di essere visti dagli altri, e quindi non essere più invisibili, può essere anche un’arma a doppio taglio, o sbaglio? Forse per un artista a volta essere invisibile può essere un pregio.
Hai centrato il punto. Dico che la mia più grande paura era essere invisibile, perché volevo che la gente mi notasse per la mia musica e così è stato. Però, allo stesso tempo, ci sono situazioni in cui vorrei uscire di casa ed essere invisibile. Magari perché è una giornata no e vorrei fare una passeggiata senza dovermi fermare. Mi rendo conto che tutto questo fa parte del gioco, ma a volte vorrei semplicemente stare con me stesso e basta.
La crescita personale è al centro di quest’album, dove si affrontano tematiche come ansia, depressione, paura. C’è qualcosa che ti spaventa del diventare adulto, sia come artista che come persona?
Ho da poco fatto ventisei anni, quindi sono ancora più vecchio (ride, ndr.), mi rendo conto che crescere è una responsabilità e la crescita personale spesso va di pari passo con quella artistica. Non è un male, significa che stai avendo sempre più anni di carriera alle spalle. Sono sei anni che vivo di musica, mi fa stare bene e mi fa capire che sto percorrendo la strada giusta e devo continuare a percorrerla per più tempo possibile.
Senti un po’ la responsabilità di portare avanti la saga di Cracovia?
Certo, perché c’è una grande aspettativa che deriva da un grande successo, ed è positivo.
Parliamo dei featuring del disco.
Su Cooling Break volevo due rapper forti, di cui uno napoletano, e quindi ho scelto Nitro, che è fortissimo e si sta spostando su sonorità che sto sperimentando anch’io, ed Enzo Dong. Per Big Show sapevo che Nicola avrebbe fatto qualcosa sopra le righe, e così è stato. Abbiamo fatto un brano americano, sembra un pezzo di Travis Scott. In realtà, invece, siamo in Italia, e quindi è ancora più figo.
Il lato più rap dei due brani che hai citato si contrappone, ma amalgama alla perfezione, con la chiusura del disco con Lettera al padre. Un brano emozionante, con parole che non sono assolutamente scontate.
È nato tutto da una passeggiata che faccio tutte le mattine. Quel giorno mi sono imbattuto in due persone che probabilmente parlavano di un loro caro che non c’è più. Mi ha fatto pensare che non si scappa dallo scorrere del tempo. L’ho concepito come se io e mio padre fossimo dentro il mio cervello e io gli stessi parlando, dicendogli a cuore aperto tutto quello che vorrei e dovrei fare.
L’ha già ascoltato?
Purtroppo sì. Ho cercato di tenerglielo nascosto, ma abbiamo fatto una sessione di ascolto tutti insieme. Non se lo aspettava, ma sono sicuro che quando lo risentirà sarà come sentirlo per la prima volta.