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Cassio e l’importanza di essere la mosca bianca

Cassio e la sua musica coincidono: sono letteralmente uno l’estensione dell’altra. L’infanzia, le sostanze, Londra, la famiglia e quel banana album dei Velvet Underground che suonava sempre

Quando inizia la mia chiacchierata con Simone (di qui in avanti, di tanto in tanto, Cassio) davanti a me trovo una persona coi capelli medio lunghi, senza maglietta, e una sigaretta che viene lentamente palleggiata tra le labbra e l’incavo che connette indice e medio. La prima cosa che mi salta all’occhio è una scritta sulla parte alta del petto che recita “famiglia”. Per qualche strano scherzo del destino, o magari a causa di un condizionamento a livello implicito, quella parola è diventata il tema centrale di questa intervista. Non perché io sia stato un ottimo interlocutore, ma semplicemente perché i punti di connessione tra noi (a partire dal nome di battesimo) sono davvero tanti, i successivi quarantacinque minuti passati in compagnia si sono trasformati in qualcosa di prezioso, quantomeno lato mio, che con le interviste canoniche che ho avuto modo di fare o leggere in questi anni davvero ha ben poco a che spartire. Ad esempio Simone mi chiama dal suo studio e mi racconta che è il posto dove passa la maggior parte del suo tempo. Siccome anch’io ho un home studio dove scrivo e incido cose nel tempo libero, finiamo per parlare di sound. Mi chiede cosa mi piace produrre e gli racconto della mia passione per il post rock e di come l’elettronica stia lentamente entrando nei miei lavori pur avendola repulsa per anni. «La storia mia», risponde, spiegandomi che certa elettronica risulta un po’ troppo artificiale alle orecchie di persone che come noi hanno a cuore la pasta sonora degli strumenti più tradizionali ma che anche lui col tempo è riuscito a capire che c’è un mondo che vale la pena esplorare.

«Quando l’ho capita, l’elettronica, mi si è aperto un mondo». Cassio tra l’altro sa suonare tantissimi strumenti eppure ci tiene a precisare che non suona bene quasi niente. Dalla fisarmonica al piano o la chitarra tutto nasce con l’unico scopo di finire in un brano (in studio, poi live si vedrà), mentre la tecnica e i virtuosismi non sono cose che lo riguardano, infatti è un autodidatta a cui piace sporcarsi le mani e sperimentare infrangendo le regole. «La musica elettronica è una delle cose più punk che esista perché rende meno elitario il concetto di composizione e arrangiamento». È qui che iniziamo a parlare dei dischi della nostra vita e degli aneddoti che si portano dietro. Ad esempio il banana album (più propriamente detto The Velvet Underground & Nico): «Avevo diciannove anni quando ho capito per la prima volta questo disco. Abitavo in una casa a Livorno con mio fratello Alessio e Dario che oggi suona ancora insieme a me. Avevamo un lettore cd appoggiato per terra in salotto e pochissimi altri dischi, ma uno di questi era proprio il capolavoro di Reed. Non spegnevamo mai la musica in casa, neanche quando uscivamo tutti». E poi In An Airplane Over the Sea dei Neutral milk Hotel. «Sono cresciuto con il punk rock.
Una volta ascoltato questo disco ho capito che si poteva essere punk anche senza il distorsore a cannone. Ho fuso questo disco per tantissimi anni da allora. Lo faccio ancora». Ma anche Give Up dei The Postal Service: «Ho ascoltato questo disco sotto l’effetto di ogni tipo di droga possibile. Nessuna lo ha mai scalfito, snaturato. Rimane sempre dolce, di una dolcezza sintetica che mi rompe tutto».

Cassio, Livorno 2024

C’è poi un grande amore per Tom Waits di cui ha scoperto a fondo tutta la discografia durante gli anni in cui ha vissuto a Londra: «Suonavamo per strada e avevo un’idea di musica in testa, non sapevo dargli un colore nè un nome, quando ho ascoltato Rain Dogs e ho capito che la mia idea l’aveva avuta prima qualcun altro. Per la precisione una trentina di anni prima. Non sapevo se essere distrutto o lusingato». Se però c’è un artista a cui ha tributato addirittura un brano (Elliott ndr.) è proprio Elliott Smith: «Ho scelto di citarti Figure 8 perché dovevo sceglierne uno soltanto ma qualunque altro disco di Elliott Smith avrebbe avuto lo stesso impatto. A me massacra lui, mi massacra la sua fragilità, il suo nascondersi dietro alla chitarra.
 É come innamorarsi di qualcuno per i suoi difetti. Cosa rara ma estremamente possibile». E a proposito di difetti ed imperfezioni, gli ho spiegato che nel mio lavoro come art director sono molto ordinato e pulito mentre la musica è uno spazio libero in cui faccio cose in modo disordinato e sporco, un po’ come lui. È allora che mi ha raccontato che l’unico modo per non perdere mai l’amore per la scrittura e la produzione di nuovi brani risiede proprio nel non sapere mai in che direzione andrà il flusso di lavoro. «Pensa che a volte registro le chitarre col telefono perché escono più profonde e pastose. Amo anche acquistare strumenti da tre soldi perché è quella sorpresa, quell’epifania di far succedere qualcosa di cui non si ha il controllo che mi emoziona. Quando si inizia a fare le cose a mestiere, è il momento di smettere».

Ne parlavamo prima. Quando hai iniziato a lasciar entrare anche l’elettronica nella tua vita artistica?
Relativamente di recente. Ho frequentato rave e in quel contesto in cui il ballo e lo sballo la fanno da padrone mi piaceva già prima ma la sentivo una cosa molto lontana da me. Poi nei miei lavori a piccole dosi è entrata anche l’elettronica. Certamente non sarei capace di fare un disco techno o forse semplicemente non me ne frega un cazzo di farlo.

Sento di potermi fidare e di poter andare un po’ a fondo nella discussione, per cui gli racconto che il mio studio nasce dal bisogno di cambiare drasticamente la struttura della casa dei miei nonni paterni e gli spiego che li ho persi in circostanze molto particolari in meno di quarantotto ore l’uno dall’altro. È a quel punto che mi inizia a raccontare dei due brani che si intitolano Nonno e Nonna. «Mia nonna era una signora elegantissima, e seppur non avesse studiato, si trovava sempre a suo agio anche tra le persone più colte. Ad esempio – siccome mio nonno era un medico – capitava spesso che lei si ritrovasse in queste cene di alto livello a parlare con le mogli dei colleghi di mio nonno e riusciva comunque con la sua grande educazione a rimanere all’interno delle discussioni. La sua bontà era indescrivibile, ma purtroppo anni dopo si è ammalata di Alzheimer e via via il suo declino è stato continuo. Io ero a Londra e ho fatto il mio grande declino, andandole dietro, ma a mio modo. Sia io che mio fratello, insieme a tutti i membri della band che avevamo allora abbiamo iniziato ad intossicarci di brutto e quindi gli ultimi anni della sua vita li ho passati lontano da lei perché mi vergognavo di mostrarmi in quello stato e soprattutto temevo che in qualche modo avrei peggiorato la situazione. Nel brano parli del funerale: credo sia stato un momento davvero difficile.
Ero lì e avevo quasi la sensazione di essere al mio di funerale. Volevo solo andare più a fondo, e mentre tutti piangevamo io con i capelli sporchi che non lavavo da una settimana avevo bisogno di uscire per comprare una busta per vomitare».

Cassio, Livorno 2024

Invece tuo nonno?
Questa casa in cui vivo l’ha costruita lui. Ci facevamo i natali tutti assieme e quando è morta nonna ci venivo a dormire perché mi sembrava assurdo che una abitazione così grande fosse vuota e lui ci stesse da solo. Ci siamo avvicinati molto ma alla fine non si è mai accorto di niente. Sono sempre stato indeciso se credere fino in fondo che lui non si fosse accorto di niente. Secondo me un po’ se lo immaginava.

Facevi uso di sostanze in casa vostra, giusto?
Sì, mentre lui stava in una stanza io venivo in camera mia e mi fumavo le mie stagnole oppure mi nascondevo in bagno per fare le righe di roba. Ero certo che mi avrebbe tirato fuori lui da questa storia, che avrebbe preso il toro per le corna, ma poi purtroppo è morto e ho pensato che non sarei riuscito a salvarmi.

Sento che il tuo rapporto con lui era fortissimo, una specie di secondo padre.
Devo molto a lui perché è stato forse più di un padre. Lui era abbastanza forte per risolvere qualsiasi cosa e invece all’improvviso è morto per una cazzata e mi ha lasciato qui a marcire nella mia merda.

Tuo fratello invece?
Lui era nella mia stessa situazione. Eravamo in cinque sotto questo tetto ad un certo punto: io, mio nonno, i miei due fratelli e la ragazza di uno dei due. Di questi, tre erano tossici, perché anche la ragazza di mio fratello era nella nostra stessa condizione. Solo mio fratello minore era pulito, e oltretutto non dubitava di nulla, come anche mia madre, perché di fatto ci vedeva condurre una vita pseudo normale.

Come si esce da una situazione del genere?
Era il primo maggio del 2018. Ho chiamato mia madre, mio padre, la mia compagna dell’epoca che aveva diciassette anni più di me e due figli e gliene ho parlato. “Questo è il mio telefono, questo è il mio portafogli. Prendete tutto e datemi una mano perché altrimenti io muoio”.

Cosa ti porti dietro da questa situazione?
Il rammarico più grande è quello di non essere riuscito a vivere fino in fondo i miei nonni in quel momento, ma credo che la cosa più importante sia aver preso atto di quanto la vita possa punire determinate scelte che fai. Ora mi concentro per far sì che non tocchi più un punto così basso. Quando ancora adesso ci sono momenti in cui le cose vanno davvero male mi guardo indietro e cerco di ricordare quei momenti in cui credevo che una via d’uscita non ci fosse. E siccome poi la via d’uscita c’è stata, capisco che in qualche modo c’è sempre una soluzione a tutto. Mio nonno mi ha insegnato con l’esempio e non con le ramanzine che si può fare qualcosa in ogni momento.

Anche io ho sentito ad un certo punto, dopo il gesto di mio nonno, che ha voluto raggiungere mia nonna, le conseguenze che ha portato nella mia famiglia. È sempre necessario trovare la forza di ripartire.
Sì, hai ragione. Ci sono dei contadini che danno fuoco ai campi per ricominciare da zero, e ho capito che persone come me e come te hanno bisogno di ricominciare, ma la fortuna è quella di avere uno strumento espressivo che ci permetta di buttare fuori certe sensazioni. Belle o brutte che siano queste cose che ci smuovono, è stupendo pensare che qualcosa che prima non c’era e adesso c’è sia nata grazie o per colpa di esperienze traumatiche come quella che mi hai raccontato tu o come quella che ho vissuto io.

Uno dei brani recenti che mi dà più la sensazione di rinascita seppur violenta è Pistola, perché se da una parte uno si aspetterebbe che la pistola fosse uno strumento di autolesionismo, anche a causa del bias dovuto ai numerosi casi di cui la storia della musica è disseminata, dall’altra tu invece dici l’opposto: “Grazie al cielo che non ho una pistola, perché sareste già tutti morti”.
(Ride ndr.) Sì, quel brano ha una componente di rabbia ma è visto tutto da una prospettiva giovanile.

Sei stato un bambino problematico?
Molto. Volevo sempre stare a casa con mio fratello, mio papà e mia mamma. Quando mi portavano a casa di un amichetto della scuola stavo sempre a guardare quel cazzo di orologio. Ero troppo fragile, pensa che avevo sempre paura che nessuno mi venisse a prendere a scuola, anzi tra la prima campanella e la seconda, che è quella che autorizza l’uscita, avevo sempre il cuore a mille perché ero proprio certo che i miei si fossero scordati di me.

Cassio, dal video ufficiale di Pistola

Come te lo spieghi?
Non so perché ma questa cosa l’ho avuta fino a quando sono diventato più grande e ci piangevo perché mi facevo quasi pena da solo. Son sempre stato arrabbiato con me e con le ingiustizie degli altri, ma soprattutto con me, adesso che ci rifletto. Eppure se avessi una pistola nel brano dico che appunto ammezzerei tutti quanti. Non lo farei mai ovviamente ma triangolando con la mente di un bambino in difficoltà certe cose diventano improvvisamente così nitide. Nelle mie canzoni a parlare è quasi sempre il Simone bambino perché la parte adulta non ha più voglia di parlare o pensare. Vuole solo stare in silenzio.

E se un giorno dovessi avere figli?
Ci penso spesso. Non vorrei mai avere un figlio come ero io perché non saprei proprio come aiutarlo e andrei in paranoia. Prima che tu possa iniziare a creare dolore su te stesso è il dolore degli altri che ti fa stare male e se mio figlio fosse così sensibile alle ingiustizie credo avrebbe una vita di merda. Questo mi ucciderebbe.

Cassio mi ha parlato spesso di ingiustizie, di sofferenza giovanile, di persone più deboli, e allora gli ho raccontato della mia più brutta partita di calcio: ero ormai grande e la squadra in cui giocavo era molto forte in quella categoria. Mi capitò di giocare una partita di fine stagione con l’ultima in classifica, una squadra che giocava con tutti ragazzi di due o tre anni più piccoli. Parliamo di quegli anni in cui anche sei mesi di differenza possono risultare complessi da gestire, per un fattore fisico e mentale. Fatto sta che io lo lasciavo sempre passare e mi lasciavo sempre togliere il pallone perché non riuscivo proprio a scontrarmi con lui. Persone come me non avrebbero mai fatto carriera neanche se fossero nate con i piedi di Messi e credo che in qualche modo questo aneddoto lo abbia acceso, ricordandogli di quando bullizzavano alcuni compagni di classe e lui sentiva il dolore di quella disparità e dell’odio di chi sa azzannare la vita con prepotenza e cattiveria. È allora che mi dice che suo padre giocava in Serie A e che quel tipo di atteggiamento iperagonistico è complicato da coniugare a questo senso che entrambi sentiamo nei confronti di chi è in uno stato di inferiorità. Sua madre invece è una persona molto più sensibile a questo tipo di dinamiche. Ciò mi fa dedurre che Simone sia più simile alla mamma, da questo punto di vista.

«Credo che i miei errori siano solo miei, ma indubbiamente io sono frutto di ciò che ho visto fare nel contesto familiare. Io comprendo lo spirito competitivo e cazzuto, ma poi ricado sempre nella declinazione compassionevole ed ipersensibile che soffre per tutto. Sicuramente anch’io avrei lasciato passare il ragazzo più debole, ma non credo sia un difetto. Al massimo è un problema se messo in relazione a questo mondo irreparabilmente ego riferito, ma temo che certi tratti del proprio carattere siano complessi da cambiare».

Dal punto di vista musicale sei compassionevole?
(Ride ndr.) Lì sono un nazi.

Anch’io. Tu come te la spieghi certa superficialità?
È una questione di obiettivi, credo. L’obiettivo di certi artisti è stare meglio grazie alla musica, l’obiettivo di altri – e non mi sento di giudicarli – è stare meglio grazie al denaro che la musica può portarti. Quando trovano una via che conduce al successo economico, cercano di perpetrarla anche se nel frattempo quella idea di musica non li rappresenta più. Altre volte per raggiungere questo traguardo ci si mette persino a tavolino per lavorare in modo scientifico. Io non ci riuscirei mai ad esempio, ma come ci siamo detti poco fa questo mondo non è fatto per chi lascia passare il calciatore più debole. Quelli che oggi fanno i grandi concerti in Italia se lo sarebbero mangiato quel ragazzetto e forse è un merito anche questo.

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