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“Paternal Leave”, imparare a conoscersi quando è (quasi) troppo tardi

“Paternal Leave”, il debutto alla regia di Alissa Jung, è un film vero, ancorato alla realtà, con una storia di assenze e tentativi, affidandosi a silenzi, gesti quotidiani e uno straordinario Luca Marinelli

C’è qualcosa di profondamente spiazzante nel modo in cui Paternal Leave, esordio alla regia di Alissa Jung, ti fa entrare nella vita di due estranei che dovrebbero essere famiglia. Non perché il film cerchi il colpo di scena o la provocazione, ma per come mette in scena l’imbarazzo, il silenzio, la difficoltà di dirsi le cose. Un padre, interpretato da uno straordinario Luca Marinelli, e una figlia si ritrovano dopo quindici anni. Lui non sa da dove cominciare, lei non sa se vale la pena cominciare. Ed è lì, in quella zona grigia fatta di sguardi mancati e dialoghi tagliati a metà, che il film trova la sua forza. Jung non forza mai i tempi. Non ci sono riconciliazioni miracolose né lacrime di redenzione: c’è la fatica vera di chi prova a riempire un vuoto scavato troppo a fondo. Il padre cerca di fuggire da tutto questo: parla di un piatto di pasta venuto male perché troppo salato, propone di andare a surfare, si rifugia nei piccoli gesti. Ma è chiaro che tutto questo serve solo a non guardare in faccia il problema.

L’assenza pesa. L’incomunicabilità è quasi un personaggio in più. Ma proprio attraverso la quotidianità – i silenzi a colazione, qualche schitarrata in macchina, le conversazioni interrotte, gli sguardi lanciati senza avere il coraggio di mantenerli – qualcosa inizia a muoversi. Perché conoscere qualcuno non è una questione di domande giuste, ma di tempo condiviso. E poi succede che ti fermi a pensare alla tua vita, alle persone che hai attorno, ai rapporti che hai lasciato andare o che non hai mai saputo davvero decifrare. Guardando questo film mi sono ritrovato a pensare a quanto spesso diamo per scontato il tempo. O peggio: a quanto lo sprechiamo evitando il confronto, convinti che prima o poi ci sarà un’occasione migliore per parlare. Ma a volte quell’occasione non arriva. O arriva troppo tardi. E allora sì, Paternal Leave fa male. Ma è un dolore che riconosci. Che ti riguarda. Una delle cose più potenti del film è il suo realismo. Paternal Leave è un film vero, ancorato alla realtà, in cui i comportamenti dei personaggi sono coerenti con la loro storia, con le ferite che si portano dietro. Non c’è nulla di forzato, nulla che venga risolto con un colpo di scena o con un gesto risolutivo. I cambiamenti non avvengono all’improvviso, perché nella vita reale cambiare è difficile. Serve tempo, resistenza, fatica.

È normale che, se per anni ci si è chiusi in un certo atteggiamento, ci voglia un percorso lento e tortuoso per scalfirlo. Non si guarisce dall’oggi al domani. Non si impara a essere padri, figlie, persone migliori con un tocco di bacchetta magica. E questo il film lo racconta con una sincerità che disarma. A un certo punto parte Solo per gioco di Giorgio Poi, e sembra cucita addosso ai due protagonisti, e anche a noi spettatori. “Un respiro diverso disperde la polvere/E dal centro del petto cominci a rinascere/Forse sì, forse solo per gioco/Per prendere parte a un miracolo”. Ed è proprio questo che racconta il film: la possibilità di rinascere, anche solo un po’, anche solo per gioco. Anche se non salverà tutto. Anche se non basterà. Ma forse basta provarci, per non sentirsi più completamente soli. Il film non offre soluzioni. Non regala conforto facile. Ma ci ricorda che, prima o poi, tutti siamo chiamati a fare i conti con noi stessi e con chi abbiamo deluso. E se non possiamo cambiare tutto, almeno possiamo provare a esserci. Sul serio, anche solo per un caffè condiviso, un silenzio meno duro, una giornata in cui smettiamo di scappare.