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“Fuori” di Mario Martone è un dentro che non passa mai

“Fuori”, l’ultimo film di Mario Martone con Valeria Golino, è il racconto di un ritorno impossibile. Di come, una volta usciti, la vita “normale” non sappia più cosa farsene di te

Fuori, ispirato all’esperienza carceraria di Goliarda Sapienza, è un film che graffia senza mai diventare pedagogico. Non ti insegna nulla. Ti fa sentire addosso la vergogna, la libertà mancata, la fantasia interrotta. Ti mette davanti a una realtà scomoda: che per molte persone, forse, là dentro, si sta meglio che qui fuori. Perché dentro – tra sbarre, umiliazioni, turni, complicità – tu sei qualcuno. Hai il tuo posto, la tua identità. Riesci finalmente a realizzarti, ad essere rispettata, ad essere considerata. E allora, al carcere, finisci anche per affezionarti. Non solo alle persone con cui condividi quegli spazi claustrofobici, ma anche al modo in cui loro ti percepiscono. Al modo in cui tu, dentro, ti percepisci. Fuori, invece, è un continuo vuoto a perdere. È un posto che ci fa paura, ci svuota. Ci priva della nostra identità.

Il film di Mario Martone, tramite il continuo alternarsi di scene passate e presenti, non ti spiega in modo forzato l’amarezza esistenziale di chi è stato in carcere, te lo fa attraversare. Ti mostra come la povertà culturale e sociale generi devianza, ma ti chiede anche: cosa fai tu, oggi, di questa libertà? Quanto vale davvero questa parola in un mondo iper-connesso ma emotivamente disabitato? Sapienza lo diceva già nell’1983, intervistata da Enzo Biagi: «Il proprio paese lo si conosce solo in carcere, in manicomio o in ospedale». Martone parte da questa frase, da questo concetto, per chiederci: chi saremmo noi, se fossimo nate altrove, con meno voce, con più fame? Se non avessimo ricevuto delle direttive chiare, se non avessimo ricevuto gli strumenti giusti per muoverci, come avremmo soddisfatto questa fame? Questo bisogno di provare emozioni? Fuori è anche il racconto di un ritorno impossibile. Di come, una volta usciti, la vita “normale” non sappia più cosa farsene di te. Non sai parlare con gli altri, non trovi lavoro, non sai più chi sei. E allora, cosa resta della libertà se non un’illusione? Forse, si è davvero sé stessi solo dentro. Dove le regole sono chiare, dove il dolore è condiviso, dove la solitudine non è un incidente ma una condizione prevista. Forse, il carcere non è la fine, ma l’unico spazio in cui certi corpi e certe menti trovano finalmente un posto dove funzionare. Un posto in cui hanno senso di esistere.

Roma è il teatro di questa impossibile reinvenzione. Un corpo urbano sterminato, attraversato a piedi, in macchina, in tram, da chi “fuori” dovrebbe ritrovare sé stessa. Ma Roma, nella sua espansione disordinata, non è libertà: è un altro tipo di carcere, fatto di solitudini affollate, lotte invisibili, sporcizia e desideri scomposti. E allora l’unico angolo di vera libertà non è Piazza del Popolo né il lungotevere, ma il retro di una profumeria in cui condividere un pasto frugale, commentando la bontà del Supplì della rosticceria di fianco, e ricordando il riso alla cantonese cucinato, in carcere, da una detenuta arrestata per spaccio internazionale. È lì, nella minuscola ritualità del cibo condiviso, che si respira, per un attimo, qualcosa che somiglia alla pace. Qualcosa che somiglia a “dentro”.