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The Murder Capital – Resistenza umana

Con “Blindness” i Murder Capital si spingono ancora oltre. Un disco istintivo e politico, cupo e vitale, che non ha paura di prendere posizione: «Se un locale ti vieta di entrare con una bandiera della palestina, sì, c’è un problema»

C’è una fiamma che brucia al centro del post-punk irlandese contemporaneo, e porta il nome dei Murder Capital. Da Dublino al resto del mondo, la band ha costruito un linguaggio sonoro feroce e lirico, capace di scavare in profondità nel disagio umano e nella responsabilità collettiva. La loro musica non è mai un semplice sfogo estetico: è dichiarazione, tensione, scelta. Con Blindness, il terzo album in studio, i Murder Capital si spingono ancora oltre. Un disco istintivo e politico, cupo e vitale, che non ha paura di prendere posizione. La voce di James McGovern, protagonista della nuova Digital Cover, è il grido di chi rifiuta l’indifferenza in un mondo in fiamme. Dalla denuncia dell’occupazione in Palestina al senso di spaesamento interiore, Blindness è un atto di resistenza umana contro la cecità morale del nostro tempo.

Avete fatto un tour impegnativo, suonato in mezzo mondo e pubblicato un disco molto denso. Ma prima di tutto, come state davvero?
Stiamo bene, sì. Ci stiamo davvero godendo il tour. L’energia ai concerti è stata incredibile, il pubblico semplicemente irreale. Certo, un po’ di stanchezza nelle ossa c’è – ma fa parte del gioco, no?

Vorrei iniziare parlando di quanto accaduto in Germania. In Love of Country cantate: “Could you blame a soul for living/Could you blame me for mistaking your love of country for hating a man?”. Alla luce degli eventi di Berlino e Colonia e delle reazioni al vostro appello per Gaza, il brano sembra essere diventato un vero e proprio inno contro i nazionalismi. Avete dichiarato che il vostro gesto non è solo politico, ma anche profondamente umano. Cosa significa per una band come la vostra essere politici e umani?
Il punto è che ridurre certe questioni, come un genocidio, a un fatto meramente politico mi sembra sbagliato. La gente tende a disinteressarsene quando si parla solo di politica. Quello che sta facendo lo Stato israeliano al popolo palestinese è prima di tutto una crisi umanitaria. Mettere una bandiera sul palco, parlarne durante i concerti: è una reazione umana davanti a una tragedia che si sarebbe potuta evitare. Quando ci dicono “è solo politica, i musicisti dovrebbero starsene fuori”… mi sembra un modo meschino per scansare il discorso. Per me è qualcosa che riguarda profondamente l’umanità.

I Kneecap hanno visto i loro fondi pubblici bloccati e sono ora indagati, ma hanno ricevuto sostegno da band come Primal Scream e Massive Attack. Anche voi avete subito la cancellazione di concerti per via della vostra posizione su Gaza. Cosa pensate della libertà di espressione nel mondo musicale oggi?
Se un locale ti vieta di entrare con una bandiera, sì, c’è un problema. Non credo che nessuno debba avere il diritto di impedirti una cosa del genere. Certo, bisogna parlarne con attenzione, usare le parole giuste. Ma non si può ignorare quello che succede a Gaza: è una tragedia. Basta ascoltare i discorsi dell’ONU o leggere le dichiarazioni ufficiali per sapere. Oggi una persona su cinque rischia la fame. Se nemmeno questo ti spinge a dire qualcosa, allora davvero non so cosa possa farlo.

Penso alle vostre posizioni, ma anche a quelle di Fontaines D.C. o Lankum. Secondo voi, cos’è che rende il popolo irlandese così empatico e solidale con i palestinesi?
È la nostra storia. Anche noi siamo stati colonizzati dalla Gran Bretagna. Hanno mandato i Black and Tans a cacciarci dalle nostre case, trattandoci come subumani. Poi gli stessi inglesi li hanno mandati in Palestina, subito dopo aver lasciato l’Irlanda. C’è un filo che unisce le due storie. E in Irlanda se ne parla da tantissimo tempo, non da uno o due anni. L’occupazione in Palestina dura da settantasette anni. Quindi c’è una comprensione profonda, fa parte del nostro quotidiano.

Parliamo ora del disco: Blindness, il titolo, mi è sembrato riferirsi a una cecità collettiva causata dall’odio o dal razzismo. È questa l’interpretazione giusta?
Sì, è esattamente quello.

Mi aspettavo un disco più melodico, e invece si apre con Moonshot, un brano potentissimo. Come avete approcciato la scrittura di questo capitolo?
Con più libertà, senza metterci troppa pressione. Abbiamo lasciato che la musica respirasse e ci guidasse. Non abbiamo fatto demo. Certo, abbiamo lavorato tanto sui brani, ma senza soffocarli prima di entrare in studio.
In questo modo potevano cambiare, adattarsi all’energia del momento. Volevamo mantenere lo spirito, l’essenza. È stato molto diverso dal secondo album, dove abbiamo limato i pezzi per tantissimo tempo.

Blindness sembra un disco più istintivo del precedente. Era una scelta consapevole fin dall’inizio?
Sì, decisamente.

In Born Into the Fight, la fede sembra più una prova interiore che qualcosa di religioso. In cosa avete – o non avete – fede?
Credo nella resilienza dello spirito umano. Dal punto di vista spirituale, per me… la fine è la fine. Non lo chiamerei ateismo. Ma tutto quello che l’umanità ha creato, e ciò che c’è là fuori nell’universo, è già incredibile di per sé. In tutto questo riesco a trovare fede e speranza.

Trailing a Wing chiude l’album in modo opposto rispetto all’inizio esplosivo. Cosa c’è in fondo al tunnel di Blindness? Una luce?
Per me la luce sta nel riconoscere la realtà. Nel capire che abbiamo tutti una prospettiva limitata – ed è normale. È ciò che ci rende umani. Ma più ce ne rendiamo conto, più possiamo convivere in modo armonioso. Accettiamo di non sapere tutto, di non vedere tutto… ma ci proviamo. Ed è questo che ci rende umani.

Avete aperto i concerti di Nick Cave and the Bad Seeds. Come è nato questo sodalizio?
È arrivato via email, una di quelle che ti fanno stropicciare gli occhi. Siamo fan sfegatati di Nick. Abbiamo imparato tantissimo ogni sera, solo guardando il loro live. La sua generosità con il pubblico, il livello altissimo delle performance… Lui e i Bad Seeds sono professionisti incredibili, ma anche imprevedibili. Il mix perfetto, secondo me. Abbiamo anche passato del tempo insieme, cenato, parlato di tutto: del mondo, dei concerti, della vita in tour. Sono persone davvero gentili e comprensive. Chi parla male di Nick Cave cambierebbe idea dopo averci scambiato due parole.

Le tematiche della perdita sono comuni a voi e a Cave. La morte è spesso presente nei vostri testi. Ne hai paura?
Ora cerco solo di usare bene il mio tempo. Voglio sentirmi a mio agio con me stesso. Se c’è qualcosa che mi preoccupa, è questo. La morte? È inevitabile. Non direi che mi spaventa. Spero solo di vivere una vita piena.

Hai iniziato il tuo percorso musicale suonando il violoncello. Sei tu a suonare nel finale di Slowdance II in When I Have Fears?
Sì, sono io che suono alla fine di quella canzone.

Oggi sei il frontman di una band post-punk. C’è un brano classico che ti piacerebbe reinterpretare in stile The Murder Capital?
Ci ho pensato tante volte. Mi piacerebbe moltissimo fare un concerto intero con arrangiamenti d’archi. Sarebbe bellissimo. È una possibilità concreta. Cerchiamo sempre di ampliare la strumentazione e provare approcci nuovi. Quindi sì: perché no?

Avete suonato una data a Milano, ma l’Italia è molto bella anche d’estate (il 23 luglio a Bellaria-Igea Marina, il 14 agosto a Lamezia Terme, il 19 agosto a Romano d’Ezzelino e il 22 agosto a Giovinazzo ndr.). Siete contenti di tornarci per le prossime date?
Assolutamente sì. L’Italia è uno dei nostri posti preferiti in cui stare, proprio come esseri umani, al di là dei concerti. Quindi sì – suonarci è ancora meglio.


Foto: Olive Yates
Digital Cover: Jadeite Studio
Coordinamento redazione: Emanuele Camilli 
Ufficio stampa: DNA Concerti 

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