Ventitré e zero sei. Tra tutti i futuri possibili ritrovarsi in una calda serata di inizio giugno a Roma è abbastanza plausibile, specie se si è appena conclusa la seconda data di Franco126 tra le mura amiche. Sto in fila, con gli occhi increduli poggiati sulle labbra di una ventenne già abbronzatissima che, ve lo giuro, non ha mancato una singola parola di Ma quale idea di Pino D’Angiò – compresa la strofa impossibile che finisce con la “marmellata”. Altro che extra beat. Stiamo svuotando la Cavea dell’Auditorium, nella giornata in cui il berretto blu oltremare di Jannik si è arreso ai calzini in spugna di Carlos – ma solo dopo cinque ore e mezza di battaglia sulla terra rossa. E mentre il quorum è lungi dall’essere raggiunto, Franco126 ha appena salutato le cupole della venue capitolina per la seconda volta, mettendo in scena uno show che mescola tante cose – tra cui persino il cabaret, in uno spassoso siparietto in cui intrattiene un botta e risposta con Zoltar.

Fermo un attimo, chi è Zoltar? Difficile rispondere. È una sorta di cartomante dalla voce robotica e l’accento romano, imprigionato in un jukebox luminoso. È il centro di gravità permanente che sostiene la struttura delle cose. Oltre a lui, sul palco, c’è una scenografia ricca e gradevole a fare da sfondo alle canzoni: delle tende rosse che citano il multisala, che però a me portano subito nei pressi della loggia nera lynchiana, e una palla luminosa che emana fumo e cambia colore di continuo definendo la scaletta (ad ogni colore corrisponde un disco da cui attingere per continuare lo show). Ci sarebbero pure dei lampioni giganti e qualche altra cosa che certamente dimentico, eppure la vera cornice la fanno le persone, intente a cantare in un coro di voci da fare invidia alle tifoserie di Lazio e Roma. Ci sono gli ospiti: da Coez a Zampaglione, passando per Gianni Bismark e Giorgio Poi, in quella che è stata di fatto una rimpatriata tra amici. E se Zoltar con quel suo fare macchiettistico in cui mixa ChatGPT, Akinator e Califano si arrabbia quando Franco gli nega una canzone troppo triste, tanto che alla fine ovviamente viene accontento.

Se la sfera luminosa decide la scaletta, se il ragazzo davanti a me è arrabbiato per la percentuale di affluenza alle urne, allora forse il vero senso di questa serata è imparare che abbiamo molto meno controllo sulle nostre vite di quanto la narrazione contemporanea voglia farci credere. Negli anni dell’auto derminazione, dei self made men e delle self made women, forse l’unica cosa che è giusto comprendere è che il vero senso della vita risiede nell’accettazione del flusso delle cose. Perché quando la pallina batte sul nastro, è solo questione di fortuna (questo non lo dico io, lo dice Allen). E tra le migliaia di anime raccolte ieri sera nel rito collettivo della vita, c’è chi ha vinto e chi in Franco126 ha trovato le parole per andare avanti. E allora se “ti ha detto male male male”, se “soltanto ci ha detto sfortuna”, forse quel che conta davvero è riuscire ad abbracciare tutti i futuri possibili senza remore.