Delle orbite di simbologia orientale disegnate attorno al fiore di loto me ne colpisce una in particolare. Oltre alla rinascita, concetto cardine nella cerchia di significati attribuiti a questo fiore, ce n’è un altro, il prescelto per la metafora con cui proveremo a dare un senso a queste righe. Nel fango che lo circonda e che crea il suo habitat naturale, il loto spicca per lucentezza. Le sue foglie hanno un singolare sistema di “autopulizia” che le rende costantemente brillanti a dispetto della melma che le circonda. Alle radici della spiritualità giapponese, questa atipica caratteristica viene declinata in diversi significati. La capacità di preservare purezza in un ambiente in cui sarebbe difficile, se non impossibile, per chiunque altro preservarla, ad esempio. Non bisogna fare voli pindarici di alcun tipo per assimilare un concetto simile a un album che di nome fa Lotus. Selezionare in base alle sensazioni, quello invece si può fare. Ci piace pensare che sia proprio questo il motivo dietro la scelta del nome: dare la possibilità a chi ascolta di declinare a proprio piacimento l’immagine simbolica del fiore di loto. Parte da qui la nostra riflessione.
Lungi dal voler rimpinzare la sfilza di reviews tecnicissime già prontamente rifilate al pubblico pagante, ripartiremo, come già anticipato e come nostro solito, dalle sensazioni che percepiamo nitide dopo i primi ascolti di un disco come Lotus. Little Simz, per chi scrive, si è già consegnata agli annali della black music con un paio di dischi. Facciamo una mossa da ribelli scapigliati ed evitiamo un po’ di malsano scrolling (alla fine ci arriva solo chi ne ha voglia). Ecco lo spoiler, il giudizio finale prima della fine, contro ogni logica ceo friendly da ventunesimo secolo. Stiamo parlando di un disco denso, carico di elementi evocativi, potentissimo nelle liriche (ma questa non è una novità). Dal primo all’ultimo minuto il flusso di coscienza mira e colpisce senza fare feriti. E sembrerebbe anche un eufemismo definirlo flusso di coscienza vista la foga con cui si trasforma in rabbia furiosa e la nonchalance con cui si distende su sonorità jazz e soul. Al principio c’è Thief, un brano che incute quasi timore come incipit del disco. Ma il messaggio è chiaro: tutta la verità, nient’altro che la verità. L’atmosfera è quella di una ballata noir, si parla di ladri, traditori, di verità violate, i suoni che accompagnano sono cupi e stranianti, funzionano alla perfezione per un prologo così drammatico e per una vicenda così personale (vedi la guerra legale con Inflo, qui non c’è spazio per la cronaca).

Se un po’ di frustrazione l’abbiamo recepita, con Flood (feat. Obongjayar e Moonchild) muta la sua forma. Si tratta di carica ora, di lotta per la sopravvivenza. Siamo tra le file di una marcia andante, i tamburi scandiscono i nostri passi verso la rinascita. Avevamo sottovalutato la forza necessaria a scacciare la melma, quel fango in cui galleggia un fiore di loto in ogni momento della sua esistenza. La prima virata arriva sfruttando un vento leggero, nel vero senso del termine. Perché il terzo capitolo di questa storia porta sollievo. Young rappresenta un cambio netto di atmosfera: spensieratezza, ribellione giovanile su toni punk pop, spigolosi il giusto.Il saliscendi è appena cominciato ed è il momento di arrivare al nucleo soul di Lotus. Un terzetto di brani (Free, Peace, Hollow) che ci aiuta a goderci fino in fondo il tepore di questi momenti. Archi e orchestrazioni leggere, vocals soffusi, non serve molto altro. In coda tutti i featuring di cui avevamo disperatamente bisogno consegnano questo disco a una dimensione altissima. Michael Kiwanuka, Yussef Dayes, Wretch 32, Sampha (Blue è l’epilogo perfetto per un viaggio così pregno, il connubio è vincente). Non stiamo parlando di un album da primo ascolto, sia chiaro. Va meditato e approfondito.
Non si può sperare, salvo inedite capacità divinatorie, di arrivare dritti al cuore di Lotus con superficialità. A tratti ci si immedesima a tal punto da sentirsi di troppo, ma è necessario. Potrebbe anche essere considerato un esercizio di spirito alquanto formativo: immedesimarsi nei panni di chi ha donato l’anima all’arte, qualunque essa sia. Pagando, il più delle volte, il caro prezzo della sofferenza. Quella si sente tutta: anche nei momenti più distensivi del disco, un sottile velo di tormento lo si intravede sempre. È proprio da qui che facciamo la nostra migliore capriola per tornare al principio di questa breve riflessione. Non deve essere facile brillare tra la melma, ripulirsi dalla merda che ogni giorno tenta di avvinghiarsi e diventare un tutt’uno con i petali. Ma la vera bellezza sta tutta lì. Nella capacità di rinascere ogni giorno, di benedire gli ostacoli superati e quelli da superare. Ora per noi sarà più facile comprendere l’importanza della simbologia del loto. I nostri occhi vedono la sua bellezza, la nostra anima avverte la sua forza, la straordinaria abnegazione nel ripulirsi ogni giorno dal fango, senza stancarsi mai, per tornare a splendere ancora una volta. Io questo non l’avevo ancora compreso, poi ho ascoltato Lotus di Little Simz.