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Travis, restare sé stessi mentre tutto cambia

I Travis non si sono mai fermati. Fran Healy ripercorre trent’anni di musica tra sincerità, nostalgia, nuove identità e un presente che non fa sconti. «Il problema è quando segui la moda. È così che smetti di essere te stesso», dice

Le canzoni sono come dei segnalibri. Le riascolti dopo tempo e ti si riapre la stessa pagina che hai letto nel preciso momento in cui l’hai ascoltata per la prima volta. Lo diceva Fran Healy sul palco del Glastonbury nel 1999. I Travis, di cui Fran è tuttora il frontman, proprio in quegli anni si facevano spazio cavalcando l’onda britpop, affiancandosi a giganti contemporanei della storia della musica britannica. Why Does it Always Rain On Me? della band scozzese è senza dubbio il segnalibro fermo al capitolo della mia infanzia felice, fatta di pigri pomeriggi passati a guardare la TV, rigorosamente sintonizzata su MTV, di video musicali visti e rivisti, di videoregistratori sempre attivi, di VHS consumate e musicassette registrate, di radio e casse sempre più ingombranti. In video, il sorriso e la voce di Fran Healy, nonostante la chioma abbia assunto colorazioni rosse inaspettate, come un bookmark, mi riapre quello stesso scenario di infanzia e serenità. Renderlo partecipe mi sembra il minimo.

Ammetto che personalmente sono ferma agli anni Novanta, musicalmente parlando. Dall’onda britpop, alla sua scia, ai suoi derivati. E noto che è dilagante questa nostalgia per gli anni Novanta. Come la vivi questa cosa?
Gli anni Novanta sono stati davvero cool. Una moltitudine di generi in Regno Unito, negli Stati Uniti dai primi agli ultimi anni della decade. Oggi la musica è cambiata. Non ci sono più le chitarre di un tempo ma è sicuramente la tecnologia di oggi che ha permesso un cambiamento incredibile. Stiamo vivendo una nuova era musicale. C’è ancora un buon songwriting, buone melodie, non credo ce ne fossero di migliori in assoluto negli anni Novanta. Oggi ci sarà un cinque per cento di roba ottima. Il restante però è qualcosa di già sentito, trito e ritrito dall’industria musicale. Probabilmente anche all’epoca ci sono state band prima di noi, proprio come noi (ride ndr.). Sicuramente abbiamo avuto difficoltà ad avere un primo contratto, magari proprio perché non eravamo come gli altri. Mi piace pensare che ai tempi fossimo una band diversa.

Dal vostro esordio ad oggi sono passati quasi trent’anni. I Travis sono cresciuti. In che fase è la band?
È come se fossimo in un orologio. Abbiamo fatto un giro completo e stiamo per ricominciare da lì. Lo noti dalle melodie, dal tipo di musica. Certo sono cambiato, siamo cambiati, ma la cosa più importante per me è rimanere fedeli a se stessi, a quello che si è fatto agli inizi. Penso proprio che il problema di molte band sia seguire la moda, fare quello che gli altri vorrebbero sentire ed è così che finiscono per non essere più se stessi. Certo è difficile. È fondamentale provare a scrivere buone canzoni. Qualche volta non sono buone abbastanza, le getti nel cestino e ricominci di nuovo. Siamo stati in giro, siamo in giro e lo saremo ancora.

E tutto torna. Così come alcuni dettagli nella cover di L.A. Times, l’ultimo disco uscito lo scorso anno. Ci sono dei particolari, dai colori, alla disposizione della band che ricordano alcune delle vostre iconiche cover o sbaglio?
Anche qui. È come se fossimo ancora in un orologio. The Man Who è alle ore dodici, The Invisibile band alle tre, The Boy With No Name alle sei. L.A. Times alle nove. Le cover sono opera dello stesso fotografo, Stefan Ruiz. Questi sono album fondamentali della nostra carriera. Non so cosa ci sarà a chiudere il cerchio nell’ultimo quarto, ma di certo avevamo molto da dire in quest’ultimo disco. La produzione, le canzoni tutto è stato pazzesco. Dovevamo creare un artwork all’altezza. Prova a metterli insieme questi quattro album. Sono cool.

L.A. Times è un’istantanea del mondo in cui viviamo, dalla manipolazione al tempo che scorre veloce. Qual è stato il processo che ti ha portato ad una scrittura così realistica?
Penso che vivere in questa città oggi, vivere in questo mondo oggi richieda un album sincero proprio come L.A Times. E qualche volta, è una cosa che devi a te stesso. Mi sono seduto, ho iniziato a buttare giù qualche riga fino a quando ne è uscito qualcosa di realmente interessante. Ho scritto forse dieci o venti idee, melodie che non risultavano sincere, troppo pensate, poco spontanee. Poi capita all’improvviso che arrivi qualcosa e ti dici «wow» e allora continui e finisci la canzone, sperando che risuoni incredibile come nel primo momento in cui è uscita fuori. E poi, se sei fortunato, raccogli dieci o undici canzoni sulla stessa scia. Ci vuole del tempo, è un lungo processo, anche e soprattutto se si cerca di essere quanto più onesti possibili.

Dopo dieci anni vissuti a Berlino, Los Angeles è la tua casa da ormai nove anni. Sarà per sempre o è solo una fase?
Una fase potrebbe durare dei minuti, dei mesi o anche una decade. Potrei aver guidato per tre interi anni della mia vita, o aver passato venticinque anni dormendo. Chi lo sa. Dipende da come metti insieme il tempo. Los Angeles sicuramente è una fase della mia vita che dura nove anni, ma non sarà la mia casa per sempre. Potrei spostarmi a New York, forse.

Non pensi mai ad un ritorno in Scozia?
Ci ho vissuto ventitrè anni lì, ho amici e bellissimi ricordi. Ma mi piace viaggiare, muovermi e andare altrove, dove non conosco nulla. Come quando mi sono spostato da Glasgow a Londra nel 1996. Lì è stato come realizzare per la prima volta “oh, ma qui è tutto diverso”. La chiave di tutto è essere distratti, non pensare troppo a quello che si fa. Se ti distrai, allora sì che arriverà qualcosa di buono.

Raze The Bar è un inno alla positività e ha le voci di Chris Martin ma anche di Brandon Flowers con cui avete condiviso un tour lo scorso anno. Ma com’è nata la collaborazione?
Quando stavamo ultimando il disco, ho chiesto un parere a Chris Martin sull’ordine delle tracce. Ha ascoltato Raze The Bar e gli è piaciuta. La suonava al piano. Qualche giorno dopo gli ho chiesto se volesse cantare anche lui nel pezzo, ha accettato e mi ha suggerito: «Perché non lo chiedi anche a Brandon?». Gliel’ho chiesto ed ecco che ci sono entrambi. L’idea della canzone è quella di essere tutti in una grande band. Mi piace pensare che tutte le persone che conosco siano un’unica e sola band che canta una stessa canzone. Un po’ come quando poi sali sul palco ed è il turno di uno, poi di un altro dal pubblico per cantare un verso della canzone.

A proposito di palco, manca pochissimo e ci salirete di nuovo, in tour. Sei pronto?
Non vedo l’ora. La cosa strana è che ora che divento più vecchio, mi sembra di sdoppiarmi ed avere più identità: ora sono quello che è a casa. Poi vado in tour e divento “l’altro”, un po’ più sfacciato, più divertente, un po’ più tutto, quando sono sul palco. Qualcosa di completamente diverso dalla persona che sono ora. Abbiamo quattordici shows e sicuramente dal terzo o quarto live mi trasformo. E poi ancora, quando torno a casa, dopo il tour, torno ad essere la persona di adesso. È una transizione davvero strana. Ma ammetto, mi piacciono entrambe le identità.

Il prossimo 5 luglio farete tappa a Milano, dopo diversi anni.
Sì e non vedo l’ora. Credo ci sia un qualcosa che leghi gli scozzesi agli italiani. Ogni volta che sono venuto, ho notato che c’è la stessa lealtà, la stessa passione ed energia a guidarci. È una cosa che percepisci ai live, si crea da subito una bella atmosfera.

In quasi trent’anni di carriera si perde il conto dei live che avete collezionato. Ma da nostalgica per eccellenza, non posso non ricordare l’iconico momento dei Travis a Glastonbury 1999 con la pioggia scrosciante sulle note di Why Does it Always Rain On Me? Qual è il momento live che più ti ha cambiato?
Quello del 1999 sicuramente, ma anche l’anno seguente quando abbiamo suonato come ultima band del sabato a Glastonbury 2000. È stato surreale perché al momento non realizzi. La fama ti travolge, arriva all’improvviso e non te ne rendi conto subito. In quel momento pensavamo solo a salire sul palco. Forse un anno o due anni dopo mi è capitato di vedere il video e lì ho capito “wow quello è stato un momento incredibile e non me ne ero accorto”.

Prendendo in prestito la tua romantica metafora di canzone/segnalibro, quello di Glastonbury è senza dubbio un momento bookmark della vostra carriera.
Decisamente. Eppure sono passati quasi trent’anni. Non sembra, vero?