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Francesco Bianconi è tornato a raccontarsi senza pudore

«Molto probabilmente già durante la tournée de L’amore e la violenza con i Baustelle sentivo di aver voglia di una dimensione un pochino meno chiassosa e pop. Se ci ripenso è probabile che sentissi già lì un po’ il desiderio, anche se solo dopo è arrivato in maniera più concreta e consapevole. È come se fossero state le canzoni ad aver chiamato loro stesse», mi dice Francesco Bianconi parlando di Forever, il primo disco da solista nato quando i Baustelle hanno concordato di prendersi una pausa. L’album dal profumo internazionale, registrato ai Real World Studios di Bath e prodotto da Amedeo Pace (Blonde Redhead), vanta importanti collaborazioni, dalle voci di Rufus Wainwright, Eleanor Friedberger, Kazu Makino e Hindi Zahra, alla scelta di grandi musicisti di estrazione classica ma con capacità di improvvisazione e composizione come Michele Fedrigotti ed Enrico Gabrielli. Dieci tracce in cui Bianconi si spoglia di tutti gli orpelli. Ma non solo: in Forever il cantautore mette a nudo ogni singola canzone sottraendo la sezione ritmica che ha sempre caratterizzato il suono dei Baustelle.

Come altri tuoi colleghi hai deciso di intraprendere un percorso in solitaria, una sorta di analisi introspettiva, molto probabilmente un’esigenza di mostrare te stesso. Quanta voglia di raccontarti avevi?
Evidentemente parecchia perché nel mio caso – non so per gli altri colleghi – quest’album non nasce da una tensione o da una dimensione di gruppo che si sfalda. Dopo due dischi e due tournée fortunate, con i Baustelle abbiamo pensato di comune accordo di fermarci. All’inizio ho cominciato a scrivere canzoni senza pensare a un disco, però poi ho visto che questi brani avevano un carattere che mi piaceva. Mi hanno dato subito l’idea che fotografassero un momento particolare e nuovo di me come essere umano, per cui alla fine ho deciso e mi son detto: iniziamo una carriera parallela come Francesco Bianconi. Insomma, un modo più privato e meno roboante – anche se meno spettacolare – di raccontarsi attraverso le canzoni.

«Completamente privo di sovrastrutture Forever è il disco della sottrazione, in cui la musica viene ridotta all’osso». Cosa intendi per sovrastruttura?
Sicuramente rispetto ad altri dischi che ho fatto con i Baustelle, questa è un’opera di radicali sottrazioni: non c’è la sezione ritmica, non c’è batteria, non c’è un’elettronica percussiva. Insomma, faccio a meno di quello che nella musica pop è abbastanza frequente. Mi sono dato dei forti limiti, le canzoni dovevano avere tutte soltanto la voce che guidava e il pianoforte e il quartetto d’archi. Poi su quello si costruivano gli altri elementi: gli strumenti a fiato che ha suonato Gabrielli, i mellotron, i sintetizzatori. Tutto è funzionale a una regola che implacabilmente doveva portare la canzone a una dimensione più intima e privata. Questa è la sovrastruttura: un’attitudine. Togliendo la chitarra o la batteria rimani in una dimensione un po’ più silenziosa e questo permette di raccontarti in maniera più intima, come se la voce assumesse più importanza.

L’utilizzo delle parole nelle tue canzoni rimane sempre l’elemento che ti contraddistingue.
Le cose da ascoltatore che mi piacciono sono così, come quando uno legge una poesia. Spesso rimango molto emozionato quando ne leggo una e trovo accostate due parole distanti tra di loro e penso che qualcuno le abbia scelte. Una parola del gergo di tutti i giorni unita ad un’altra parola data dal linguaggio della botanica che messe insieme… cazzo che belle! Quelle parole un omino le ha messe insieme in un rigo e ti fa piangere di commozione, per cui ecco, magari riuscire a fare anche questo nelle canzoni.

Molto probabilmente è dovuto al timbro di voce e alla sensibilità che ti contraddistingue, ricordi De André, anche se con alcune differenze. Il cantautore genovese è il pittore del mondo reale, racconta in poesia ciò che i suoi occhi vedono, la società e la cultura del suo tempo, mentre tu sei più vicino a cantare l’animo umano, riuscendo a rendere collettivo un sentimento che parte da una consapevolezza personale.
Ben venga che ci sia qualche differenza tra me e De André, d’altronde è anche normale essere diversi. Sono molto interessato all’animo umano in generale, in questo disco ancora di più e soprattutto sono interessato al mio. Forever è una sorta di super analisi, parlo molto di me in profondità senza neanche troppo pudore e spero che questo raccontare così nel profondo di me sia un modo per raccontare l’animo umano in generale.

Un album multilingue a partire dal titolo. Tu che canti in italiano, ma si alternano anche inglese e arabo. Come mai questa scelta esterofila e perché voler unire il contemporaneo al classico?
Il disco nasceva con l’idea di ridurlo a dei suoni ben precisi per cui c’è stata la necessità di sottrarre delle cose dalla canzone, quindi se si tolgono gli orpelli e rimangono canzoni che sono voce e pianoforte e poco altro, è come tornare a una sorta di essenza primitiva e primordiale come se fosse un’unica canzone sospesa nelle epoche storiche non appartenente a nessun tempo. Potrebbe essere un brano contemporaneo come un brano del 1700. Mi piaceva quest’idea di una canzone così, ridotta ai minimi termini e distillata a una sorta di purezza che porta a un folk universale, rafforzato dal fatto che ci potessero essere delle voci non italiane che cantassero con me nella loro lingua quasi a dimostrare che è un po’ la stessa canzone da Tunisi a New York. Per cui, nata la mia collaborazione con Amedeo (Pace ndr.), si è da subito attivato alla ricerca di voci. Io mandavo il pezzo senza parole o con il testo in italiano e chiedevo di scrivere il testo nella lingua dell’artista che poi avremmo cantato insieme. A Rufus, ad esempio, gli ho inviato il pezzo in italiano e gli ho chiesto se avesse potuto riscriverlo in francese essendo lui canadese/francofono. Lui mi ha scritto di essere un super amante dell’opera e che voleva assolutamente cantarla in italiano.

Dal momento che lo abbiamo definito l’album della sottrazione e soprattutto in questo periodo storico l’azione del sottrarre molto probabilmente ci sta salvando l’editore giapponese Fumio Sasaki ha scritto: “In una casa dove ci sono poche cose ci può essere la felicità”. Tu in altre interviste hai dichiarato di essere felice e lo volevi comunicare.
Ho dichiarato di aver fatto un percorso, di essere cambiato e volevo raccontare la consapevolezza anche del cambiare. Per quanto riguarda gli orpelli si sa, lo si dice sin dal dopoguerra, da quando hanno generato il termine società dei consumi in occidente, viviamo pieni di oggetti, macchine, computer, telefonini, vestiti. Non voglio fare il francescano ma è ovvio che sono inutili e ci distraggano dal fermarsi e guardarsi dentro. Fumio Sasaki ha ragione, nelle case con pochi oggetti a volte si è più felici. A volte si è più felici anche senza casa soprattutto quando ci devi star chiuso dentro per forza. C’è una canzone meravigliosa di Gaber e Luporini che fa: “Perché il giudizio universale non passa dalle case, le case dove noi ci nascondiamo/Bisogna ritornare nella strada, nella strada per conoscere chi siamo”. Questo non significa che le case siano il male, ma credo che il lockdown a me ha fatto pensare molto alle case, anche metaforicamente: costruire ripari che servono quando dobbiamo affrontare noi stessi che è un’azione paurosa. Ma in realtà il vero male è proprio il non guardarsi dentro.