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I Blur sarebbero diventati i Blur anche senza “Song 2”? Certo che no

È il 15 gennaio 1996 quando, nel bel mezzo di un festival in Svezia, Damon Albarn decide di spiazzare tutti. «Il prossimo pezzo non ha un titolo, non so neanche di cosa parli perché in realtà non ho neanche ancora scritto il testo. Al momento si chiama Song 2», dice. Un momento, questo, che si è subito trasformato in una sorta di aneddoto di culto tra i fan più sfegatati della formazione di Colchester. In pochi quel giorno avrebbero potuto immaginare che il brano – presentato come un casuale prodotto incompleto – sarebbe diventato la hit di successo che avrebbe permesso alla band di sfondare ovunque, ma soprattutto negli Stati Uniti. Perché diciamocelo, la carriera dei Blur sarebbe radicalmente cambiata dopo la pubblicazione di Song 2. Una canzone che con orgoglio si riproponeva di scimmiottare il grunge statunitense con un testo confuso – a limite del nonsense – e un arrangiamento beffardo persino nella sua scrittura. Il ritornello dopotutto non era composto che da due semplici sillabe – entrate di prepotenza nella cultura di massa del 1997 – capaci di mandare su tutte le furie persino il liricista meno rispettato. Quel “woo-ooh”, infatti, si trasformerà nell’elemento chiave di un brano dal successo planetario, complice anche l’inserimento all’interno della colonna sonora di Fifa: Road to World Cup ‘98.

Ad ogni modo, a pochi mesi da quell’esibizione – oggi ritenuta leggendaria – i britannici si sarebbero recati a Reykjavìk in Islanda, per registrare il loro prossimo album, passato alla storia con il nome di Blur. Si tratterà di un disco cruciale per la formazione, il primo a permetterle di sfondare definitivamente nella terra delle opportunità. Albarn, e soprattutto Coxon, capiscono che è arrivato il momento di uscire dal filone ormai morente del britpop per buttarsi a capofitto sull’indie rock e sul lo-fi, di gran lunga più vicini al sound dominante negli States in quel periodo. E Song 2 nasce proprio grazie a questi presupposti, ma come uno scherzo, una battuta di spirito. Song 2 – in qualità di secondo estratto dal nuovo album – si prenderà gioco di un certo tipo di rock che in America domina le classifiche e crea tendenze, con un’attitudine che più Blur non si può. E pensare che all’inizio la band non credeva nemmeno nel successo che di lì a poco la traccia avrebbe riscosso. Al contrario, Albarn e soci la ritenevano fin troppo rumorosa – e persino orribile – per essere pubblicata, ragion per cui non fu inserita all’interno di Blur su loro iniziativa. Già, perché fu proprio il rumore a giocare un ruolo di rilievo nella realizzazione di questo iconico brano: due, infatti, furono le batterie utilizzate in fase di registrazione, suonate contemporaneamente da Coxon e Dave Rowntree. Il tutto esclusivamente volto a farcire un prodotto che sarebbe risultato diverso dal sound con cui la band aveva abituato il suo pubblico fino a quel momento.

Ma ciò che più colpisce della narrazione legata a questo capolavoro è che, in quanto frutto di un’improvvisazione, finì per rimanere tale. Il titolo della traccia, infatti, era originariamente un titolo provvisorio, indicativo della sua posizione all’interno del nuovo album. E la numerologia avrebbe continuato a far sorridere la band e i suoi fan nel corso di quell’ottima annata: il numero due avrebbe rappresentato non solo la posizione del brano all’interno tracklist, il titolo o le batterie suonate, ma anche la lunghezza complessiva della traccia (due minuti e due secondi), la sua struttura (due strofe e due ritornelli), oltre che la posizione raggiunta nelle classifiche del Regno Unito. Come spesso accade, in questi casi diventa piuttosto facile parlare di storie legate al concetto di destino o comunque di un successo annunciato, data la potenza d’impatto che tutt’oggi riscontriamo in questo brano. Tutto ciò che sappiamo, però, è che Song 2 rimane il prodotto più identificativo del gruppo inglese, il quale ancora oggi oltreoceano è riconosciuto quasi esclusivamente grazie alle sue note – diventate manifesto di un concetto di musica in cui divertimento e contaminazione si combinano in nome di un’indiscussa creatività.