dark mode light mode Search Menu
Search

Golden Years, per sconfiggere la noia

Dalle collaborazioni con artisti come Colombre, Psicologi, Laila Al Habash e Post Nebbia, Golden Years ha deciso di «tirarsi fuori», con il suo primo producer album che è «più un mixtape»

Se provate a digitare “noia” su Google, tra i “cosa hanno chiesto le persone” troverete: “Cosa fare per combattere la noia?”, “Cosa porta alla noia?”. Se per molti questa emozione è così negativa da cercare di combatterla in ogni modo, portandola quasi all’esasperazione fino a trasformarla in ulteriore stress, per altri la noia è un motore indispensabile per la creatività. È il caso di Golden Years, nome d’arte di Pietro Paroletti, producer romano (quasi) trentenne. Dalle collaborazioni con artisti come Colombre, Psicologi, Laila Al Habash e Post Nebbia, Golden Years ha deciso di «tirarsi fuori», con il suo primo producer album che è «più un mixtape». Negli scorsi mesi il produttore ha anticipato l’uscita del suo nuovo progetto con tre singoli, Verdad, Fantastico e Surreale, in collaborazione con alcuni degli artisti più interessanti del panorama musicale italiano, da Ele A a Nayt, fino a Franco126 e Giorgio Poi.

Partiamo da qualcosa che ancora non c’è: il tuo nuovo album.
Dovrebbe uscire in autunno. È un disco di collaborazioni e i singoli che sono già usciti lasciano intendere la direzione che ho voluto dare a questo progetto. Ci sarà anche qualche brano strumentale, perché l’idea è quella di un album che possa avere una linea musicale abbastanza precisa rispetto al mio lavoro precedente, che era più un mixtape.

Qual è la traiettoria che pensi di aver tracciato con questo progetto?
L’idea era quella di fare canzoni pop, con una struttura e un’ambizione di quel tipo, ma allo stesso tempo con un sound che mi stimolasse, interessante rispetto alla maggior parte delle cose che escono in Italia oggi. Quando ho iniziato a lavorarci, e in questi mesi, ho ascoltato molta roba dei primi anni Duemila. Ho riascoltato molto i Gorillaz e penso siano stati un’influenza molto forte per questo progetto, soprattutto per la capacità di variare tra un genere e l’altro, con una scelta di suoni anche spiazzanti rispetto a quello che ti aspetteresti.

Verdad, Fantastico e Surreale sono i tre brani che anticipano l’uscita del tuo album. Parliamone più nel dettaglio.
Il primo ad essere nato è Fantastico, ed è anche quello che è venuto fuori più facilmente. Avevo questo beat, ho beccato Drast in studio e il brano è venuto fuori in due ore. Lui poi ha avuto l’intuizione brillante di ricantare la linea del reef strumentale del ritornello invece di aggiungere melodie o altre parti musicali. Ci è venuto in mente di chiamare a collaborare Giorgio Poi e sono felicissimo di averci lavorato, perché lui fa pochi feat e sono suo fan da sempre.

Invece Verdad?
Verdad è quello con la storia più complessa. Il ritorbello di Joan era nato su un altro pezzo, ma non ci convincevano le strofe. Da qui l’idea di chiedere a Ele A di scrivere una strofa, a cui però avevo già mandato un altro beat. Quindi Verdad nasce di fatto dall’unione di due brani distinti, a cui noi abbiamo dato coerenza.

Infine Surreale con Franco126 e Nayt.
Surreale è nata con Federico (Franco126 ndr.), è venuto in studio da un sushi e l’altro (ride, ndr.). Gli ho fatto sentire il beat, gli è piaciuto molto e ha scritto il ritornello di getto. Per la seconda strofa abbiamo pensato a Nayt, che non aveva mai lavorato con Federico e si è prestato con entusiasmo, dando molto al pezzo dal punto di vista del flow e della scrittura. Questi tre brani hanno storie diverse, ma allo stesso tempo simili: sono nati spontaneamente e con persone con cui mi trovo bene a lavorare.

Rispetto a loro, ma anche in generale: dai indicazioni agli artisti anche sul testo, o li lasci liberi?
In una primissima fase lascio totale libertà, mi sembra giusto. Anche il fatto di lavorare con persone che stimo e di cui apprezzo la scrittura mi porta ad essere fiducioso. Poi una volta che vengono fuori le prime idee ne parliamo, condividendo spunti e riflessioni, per sviluppare insieme il testo definitivo. Di base voglio vedere cosa tirano fuori senza avere paletti o un canovaccio da seguire.

È innegabile che negli ultimi anni i producer album siano entrati di diritto tra le uscite da tenere d’occhio. Sick Luke, per me, è uno dei pochi che è riuscito a portare un progetto dove troviamo davvero artisti che provengono da mondi diversi, senza concentrarci solo sui cavalli vincenti, come gli hitmaker del rap. Senti il peso di portare al pubblico qualcosa che ha in primis il tuo nome?
Il mio obiettivo è fare canzoni che mi piacciano. Tutto ciò che riguarda nomi grossi, posizionamento, streaming, secondo me vengono dopo e non possono essere un presupposto. Io voglio divertirmi, fare musica che mi piace e con persone con cui mi trovo bene sia dal punto di vista musicale che umano. Non mi pongo grosse questioni, semplicemente voglio fare brani che mi piacciono e il giorno dopo, a lavoro finito, pensare che se la canzone uscirà magari piacerà anche a qualcun altro. Il resto lascia un po’ il tempo che trova, perché se da una parte ci sono producer album che hanno tirato fuori pezzi interessanti, dall’altra c’è chi ha portato un collage di featuring senza ne capo ne coda. Spero che il mio sarà nella prima categoria.

Ti è mai capitato di sentire “stretta” la tua figura di producer?
No perché lo reputo il mio lavoro vero e proprio ed è ciò che vorrei fare a tempo pieno. Questo nuovo album è più un episodio, un esperimento. Quando ho iniziato a fare pezzi con il mio nome è stato per noia, perché era in piena pandemia, stavo lavorando meno e non a cose che mi stimolavano particolarmente, ma avevo bisogno di fare qualcosa che mi piacesse davvero.

Di recente ho visto un post su Instagram dove si diceva: “La musica in Italia dove ci sono più produttori che studi”. Tu hai mai sentito l’esigenza di trasferirti a Milano?
No, anche se me lo sono chiesto, perché ci vengo spesso per lavoro. Per quanto sia bello stare in una realtà in cui ci sono tanti stimoli e gente che fa il mio stesso lavoro, percepisco sempre una forma di pressione, di fretta e competizione che fa vivere male la musica. Tantissimi produttori e artisti che vivono a Milano mi hanno confermato che il discorso su questo tipo di ansia è comune ed è controproducente dal punto di vista della creatività. Bisogna sempre ricordarsi che per fare musica serve tempo e perdere tempo, annoiarsi per poi trovare il modo di divertirsi facendo il proprio lavoro. Non bisogna mettere il pilota automatico, inseguendo a tutti i costi i risultati o la hit. In definitiva, sto meglio a Roma.

Roma è sicuramente meno frenetica di Milano, e di conseguenza anche i livelli d’ansia si abbassano.
Ho notato che a Milano quando esci la sera comunque non riesci mai staccarti dal lavoro, perché continui a parlarne, ma non in maniera serena e disinteressata, ma per far vedere quante cose fai. È difficile negare che sia così e, secondo me, dal punto vista creativo è controproducente e non fa bene a nessuno.

“Noia” è una parola che è venuta spesso fuori durante questa intervista. Che rapporto hai con la noia? Mi sembra che per te sia un bel carburante.
Per me è il preludio della creatività e della curiosità. Non la vivo in maniera conflittuale, anzi rappresenta proprio una “fase iniziale”. Quello che trovo brutto è, invece, quando ti annoi facendo il tuo lavoro, perché vuol dire che qualcosa non sta funzionando come dovrebbe.

Quest’anno siamo al nostro primo “giro di boa”: i trent’anni. Come li stai vivendo?
Molto bene. Ovviamente mi mette ansia dal punto di vista meramente numero, perché gli anni del Covid mi hanno catapultato nei trent’anni senza che me ne rendessi davvero conto. Ma mi sento meglio adesso rispetto a qualche anno fa, ho le idee più chiare e più fiducia in quello che faccio, so cosa mi va o non mi va di fare. Non sento di aver raggiunto nulla, ma ho le idee chiare su dove voglio andare.