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La versione 3.0 degli Spandau Ballet non è un karaoke

Dici Spandau Ballet e immediatamente ti ritrovi catapultato nel pieno degli anni ’80. Cavalcando a fasi alterne quattro decenni, la band di Gary Kemp e soci è arrivata sino a noi, ma non prima di aver stupito la fanbase rimpiazzando niente meno che Tony Hadley. Lo storico frontman, dopo aver superato tutti i successi, le cause in tribunale contro Gary, lo scioglimento e la successiva reunion del 2009, ha ora intrapreso (definitivamente?) la carriera solista.

Ieri sera la band inglese è approdata sul palco del Fabrique di Milano nella sua versione 3.0 (perché di questo stiamo parlando) con un Ross William Wild alla voce. Con la freschezza e la volontà dei suoi trent’anni, inseriti in una band che è più adulta di lui, Ross ha provato per oltre un’ora a superare gli ovvi paragoni col suo predecessore riuscendoci a metà. Il punto nodale è che la sua vocalità da un lato tenta di emulare (senza riuscirci) quella di Hadley, dall’altro il suo vibrato varia l’atmosfera dei pezzi. Intendiamoci, Ross canta bene e lo show non risulta un karaoke, ma sostituire un pezzo da novanta con una voce riconoscibile e caratterizzante come quella di Tony è un’operazione quasi impossibile.

Spogliandoci di tutto il pregresso e della storia, la setlist è un vero e proprio greatest hits. Dai grandi successi come Only When You Leave, GoldTrue e Through The Barricades gli inizi electropop a cui è stato dedicato uno slot centrale dello show. Gli Spandau Ballet –anche ripensando ad esibizioni live viste in altre occasioni – suonano molto bene. Forse anche meglio di quanto non facessero da tempo. Martin Kamp ha ancora la gioia negli occhi di chi ama il suo pubblico. «Siamo molto felici di essere qui e vi siamo grati di averci accettato con questa nuova formazione», dice verso la fine dello show Gary.E siccome indietro non si torna, avanti Spands.