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Editors, l’indie rock è una cosa seria

Violence, l’ultimo album degli Editors (ripubblicato in una nuova veste a inizio maggio sotto il titolo di The Blanck Mass Sessions) è molto più incazzato dei precedenti lavori. La band inglese l’ha registrato con l’aiuto del produttore Leo Abrahams (Florence + The Machine e Paolo Nutini) tra la Glasshouse di Oxford e i Monnow Valley Studios di Rockfield, un tempo la roccaforte dei Simple Minds e dei Black Sabbath. Le violenze che danno il titolo al lavoro sono quelle che vengono sbattute in faccia ogni giorno, tengono a precisarmi. «C’è un sacco di odio in rete e pian piano, senza che ce ne accorgiamo, si insinua nelle nostre vite e provoca una serie di azioni e reazioni spesso molto violente. Ci riferiamo a questo tipo di violenza più che a quella fisica». Tra le canzoni più dure e dirette del lavoro c’è Magazine, una netta presa di posizione contro il potere: «Con quella canzone vogliamo parlare a chi sta ai vertici, a chi ha in mano il potere. Ai primi ministri, ai presidenti di tutto il mondo».

Quando li chiamo, gli Editors sono da poco tornati da Newcastle, dove hanno messo in scena al This Is Tomorrow Festival l’ultima data inglese del loro tour europeo che terminerà a luglio a Bucarest. In mezzo tre live italiani: il primo a Taranto, il 7 giugno, a cui seguirà l’esibizione al Firenze Rocks, dove suoneranno prima dei Cure («Loro sono formidabili, Disintegration l’avremmo voluto incidere noi», mi confidano) e a luglio come headliner dell’Home Festival. Dopodiché Tom, Russell, Edward, Justin ed Elliott si ritireranno per un po’ a vita privata senza però appendere gli strumenti al chiodo: «Penso proprio che staremo via per un po’ ma continueremo a creare», mi dice Leetch.

Tra le nuove canzoni prodotte ce n’è una che hanno voluto inserire nella scaletta che stanno portando in giro per l’Europa. Si intitola Frankenstein e nella prima strofa giuro di aver sentito Tom Smith cantare: “Wherever we go the lights get low/I’m Frankenstein”. Sarà probabilmente contenuta nel loro prossimo album che per il momento però non ha ancora una data di uscita ma «presto arriveranno grandi notizie. Abbiamo in serbo qualcosa di nuovo», mi dicono con l’aria di chi nasconde qualcosa di molto importante. Indiscrezioni parlano di un greatest hits che racchiuderà il meglio della loro carriera – ormai giunta al traguardo dei diciassette anni – quasi a voler dire che no, l’indie rock non è morto e che sì, l’indie rock è ancora una cosa seria: «Ci sono meno band che appartengono a questo genere, o forse sono meno le band che riescono a sfondare rispetto a quando siamo emersi noi. Ma credici, c’è ancora del buon indie rock in giro».

Editors, foto di Rahi Rezvani

Si sono conosciuti alla Staffordshire University agli inizi degli anni duemila; l’intesa è stata immediata. Subito sono arrivati i primi live nel Regno Unito che nel giro di qualche anno si sono trasformati in concerti da tutto esaurito. Quasi vent’anni di rock fatti di grandi palchi, session di registrazione e voglia di sperimentare. Gli Editors non hanno mai smesso di evolversi, l’hanno fatto all’inizio del decennio con The Weight of Your Love e lo fanno oggi con The Blanck Mass Sessions. E forse è proprio per questo loro continuo evolversi che oggi Tom e soci non si sentono delle icone dell’indie rock: «Se lo pensassi dovrei farmi controllare», dice Russell. Nella loro musica sono racchiusi in piccole dosi i Depeche Mode, gli Elbow e i Walkman ma anche i Talk Talk e i Blue Mile: «Da tutti loro abbiamo preso qualcosa. Diciamo che è stato un grande melting pot. Ci dispiace solo che non ci siano più identità rock come loro. Da quanto mancano in radio band come i R.E.M.?».

La ricetta del successo degli Editors? «La comunicazione. Crediamo sia la cosa più importante all’intero di una band e se questa viene a mancare anche solo una volta, ci si ritrova nei guai». In loro non c’è niente di artificioso e di creato a tavolino: «Nulla è stato ragionato, tutto è venuto da sé: dalle movenze all’abbigliamento total black con cui ci presentiamo sul palco». Una dichiarazione perfetta per la conclusione, se non fosse che Russell ci tiene ad avere l’ultima parola: «Poi sai che c’è? Non sono mai stato un fan delle band in completo beige (ride ndr.)», dice. La frecciatina ad una certa band di Sheffield non è neanche tanto velata ma d’altronde questo è il gioco del rock & roll e chi ci sta dentro deve obbligatoriamente stare alle regole.