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C’è bisogno di più live come quello dei Cure

Non sono un goth e non faccio parte di quella generazione cresciuta con le canzoni dei Siouxsie and the Banshees. A dirla tutta non ho mai ascoltato i Sisters of Mercy e neanche Christian Death ma nonostante ciò i Cure hanno sempre sprigionato in me un’attrazione magnetica, quella stessa sensazione che sembrano provare anche i quarantamila che ricoprono la Visarno Arena per l’ultimo step del Firenze Rock. La band inglese è tornata in Italia a tre anni dall’ultima apparizione (dagli show di Roma e Milano del 2016), in mezzo un live evento lo scorso anno ad Hyde Park con cui ha festeggiato in patria i quarant’anni di carriera. Sul palco del Firenze Rocks sono in cinque: Simon Gallup che salta da una parte all’altra dello stage con il suo Schecter, Jason Cooper alla batteria, Roger O’Donnell alle tastiere e Reeves Gabrels, eccellente chitarra, la stessa che nel 1995 suonò in 1.Outside di David Bowie. Al centro ovviamente c’è Robert Smith, e non potrebbe essere altrimenti: nato artisticamente in un’epoca in cui il pop britannico era spudoratamente eccentrico, tutt’oggi sul palco riesce a preservare quell’estetica che lo ha reso il volto più iconico del rock inglese.

Sembra uscito da una puntata di Adventure Time: capelli arruffati, rossetto rosso e camicia XXL total black. Sale sul palco, attacca il jack e senza il minimo cenno inizia a suonare. Si parte con Shake Dog Shake in cui Robert Smith già negli anni ottanta cantava “Wake up in the dark/The after-taste of anger in the back of my mouth” per continuare con Burn, A Night Like This e la dichiarazione d’amore di Pictures of You. In mezzo c’è anche qualche chicca, la prima è Just One Kiss del 1982. Certamente c’è del merito in questo: i Cure sono una di quelle band il cui repertorio più ignoto merita comunque di essere ascoltato. Proprio come Last Dance (suonata subito dopo la celeberrima Just Like Heaven) che allude all’era synth-pop in cui la band raggiunse la maturità artistica. Poi Never Enough fino ad arrivare a Push. La performance dei Cure è a dir poco sensazionale: un masterclass eseguito con il brio e la grazia di una band che sembra (e probabilmente lo è) ancora nel clou della sua carriera. Due ore e mezza di musica in cui all’orecchio non giunge neanche un piccolo cedimento vocale che sia chiaro, alla venera età dei sessanta sarebbe anche tollerato. I brani di Disintegration – che proprio quest’anno compie trent’anni – si fondono senza minimo sforzo a hit come High e One Hundred Years.

Qui non stiamo parlando di canzonette, di pop da classifica: la musica dei Cure non lo è e probabilmente non lo sarà mai. Qui stiamo parlando di un monumento alla new wave, all’estetica, all’attitudine. «Adesso suoneremo qualche brano che non esito a definire pop», dice prima di cimentarsi in Friday I’m in Love e Close To Me – per la prima volta la voce del pubblico sovrasta quella di Smith – seguite da Why Can’t I Be You? e l’evergreen Boys Don’t Cry. Immensa. E proprio con la stessa disinvoltura che l’ha portato ventinove canzoni prima sul palco, Robert Smith se ne va. Nessun discorso, nessuna presentazione, nessun artificio. E sta proprio qui il punto: in un’epoca in cui sembra indispensabile caricare la musica live di sovrastrutture, il concerto dei Cure al Firenze Rocks rappresenta una gran bella eccezione. Ed è proprio per questo che abbiamo ancora un disperato bisogno di loro.