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Beyoncé ha un enorme potenziale e la sfortuna di utilizzarlo male

Riordinando la libreria ho trovato uno di quei libri storici su Napoleone Bonaparte. Uno di quei libri che escono come inserto dal quotidiano e che tieni sulla libreria a prendere polvere, insieme a qualche libro di cucina di Benedetta Parodi, che puntualmente compro e non uso. Sulla copertina c’è scritto: “Chi ha voglia di rovinare gli uomini deve solo permettere loro tutto”. È buffo, perché pensavo la stessa cosa ascoltando il nuovo brano di Beyoncé. Sono le 9:00 del mattino, in uno stato comatoso fra il sonno e le vicine di casa ucraine che cantano a squarciagola a finestre aperte. Il mio editore mi chiama: Beyoncé ha pubblicato una nuova canzone. Apro gli occhi, leggo il titolo, Black Parade, mi gaso. Non parto mai con grosse aspettative, ma è Beyoncé! Come si fa a non avere grandi aspettative?

Leggo che oggi si festeggia il Juneteenth, una ricorrenza americana che festeggia la fine della schiavitù. È un periodo particolarmente complesso per l’America, si sa. Gli afroamericani continuano a morire come mosche, la polizia non accenna a ridimensionare il suo strapotere e il presidente, o presunto tale, è troppo impegnato ad azzeccare la tonalità giusta di arancione per l’autoabbronzante. Beyoncé, come tanti altri colleghi, ha ovviamente sostenuto le proteste che ci sono state nelle varie città degli Stati Uniti fin dal primissimo momento e le sue canzoni sono diventate l’inno del movimento Black Lives Matter. Sul suo sito si legge: “Buon Juneteenth. Essere neri è il tuo attivismo. L’eccellenza nera è una forma di protesta. La gioia nera è un tuo diritto. Black Parade ti celebra”. Che tipa – penso fra me e me. Le ucraine continuano a cantare.

Sono talmente gasato che quasi dimentico di ascoltare la canzone. Metto play. “I’m going back to the South/I’m going back where my roots ain’t watered down”. Parla di radici, sin da subito. Il ritmo non è propriamente quello che mi aspettavo. In effetti non mi aspettavo nulla, men che meno questa canzone. Però è bello parlare di radici, proprio oggi. La canzone prosegue e automaticamente mi si storce il naso. Il mood è quello di The Lion King, effettivamente (sembra quasi non esserne uscita mai). Una produzione dalla sonorità vagamente afro su cui Lady Carter associa immagini complementari: radici, sud, madrepatria, storia.

Mi sforzo di pensare all’importanza del fattore culturale afroamericano, piuttosto che al susseguirsi di luoghi comuni. La canzone continua in maniera monocromatica. Non ci sono grandi prodezze e la linea melodica è abbastanza elementare. Ma ritorno al testo: “Being black, baby, that’s the reason why they always mad, yeah, they always mad, yeah”. Penso – beh, un po’ semplicistico, no? E poi tutti questi yeah, questi swag, erano necessari? Essere neri è la ragione per cui si arrabbiano, sì. In effetti è così. Ma è più complesso di così: essere neri è la ragione per cui uccidono, per cui negano una buona educazione, un futuro migliore.

Mi mordo la lingua, penso che è comunque una canzone, non si poteva fare un discorso alla Obama. Le ucraine continuano a cantare, mi alzo per chiudere la finestra e mentre mi alzo sento: “We got rhythm/We got pride/We birth kings/We birth tribes” (“Abbiamo il ritmo/Abbiamo l’orgoglio/Partoriamo re/Partoriamo tribù”). Certo, i neri hanno il ritmo nel sangue. E chiaramente non ci sono più le mezze stagioni. Can che abbaia non morde, sposa bagnata sposa fortunata e l’importante è partecipare. Non so, qualche altro luogo comune? Capisco il senso di appartenenza ad una cultura profondamente radicata alle proprie radici africane, ma qui non si parla di tribù. Qui parliamo di americani. Persone, oltre il loro pigmento. Uomini, donne, bambini, stanchi di sentirsi in pericolo, specialmente se il pericolo più grande è chi dovrebbe proteggerli. Non si combatte per veder riconosciuta la loro storia e la loro importanza culturale, quella è assodata. Qui si sta combattendo per il futuro, e l’unico sguardo al passato è quello che chiede giustizia per i tanti, troppi, che hanno perso la vita in questi anni.

La canzone non è male, nonostante gli stereotipi. Il fine è nobilissimo. Ma c’è una parte di me che ripensa a quel libro impolverato sulla mensola. “Chi ha voglia di rovinare gli uomini deve solo permettere loro tutto”. Permettere ha tante accezioni. La prima, quella più inerente al discorso di Napoleone, vuole intendere “autorizzare, acconsentire”. Nel suo contrario, più inerente agli afroamericani, vuole intendere “negare, proibire”. La terza, invece, si sposa alla figura di Beyoncé. Può permettersi tutto. Ha facoltà di poter fare tutto. Ha tutti gli strumenti del mondo: voce, talento, potere economico, potere sociale e così via. Beyoncé ha un enorme potenziale e la sfortuna di saperlo utilizzare male.