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“Patti in Florence” è la storia di un amore che dura da 40 anni

Schermo nero. In sottofondo si riconoscono alcuni passaggi di People Have The Power, ma in evidenza si sente solamente una voce, quella di Patti Smith che, con il carisma di una donna del rock e armata di robusta dolcezza, recita alcuni versi in una biblioteca colma di gente che sta lì ad ascoltarla. Inizia così il documentario di Edoardo Zucchetti che ha inaugurato la scorsa edizione del Festival dei Popoli di Firenze. In Patti in Florence – questo il titolo – è come se il regista volesse rimarcare sin dai primi minuti che la vera forza del film è la gente che ne ha fatto parte, nel caso specifico molti fiorentini che hanno manifestato ammirazione per Patti Smith sin dal 1979, anno in cui l’artista newyorkése arrivò nel capoluogo toscano con il tour di Horses.

Lo si potrebbe considerare un film matriosca, nel senso che racchiude più concerti che però sono tutti fortemente legati tra loro. «C’è un filo conduttore molto bello – mi racconta Edoardo – Nel 1979 Patti Smith venne in Italia con il tour Horses, nel 2009 fu proprio sua l’idea di omaggiare Firenze con il suo ritorno dopo trent’anni da quel concerto storico, poi ancora una volta tornò nel 2015. Con Patti in Florence non mi interessava però puntare l’attenzione su questo ciclo di musica e date, bensì ritrovare e intervistare i protagonisti. In primis ho scelto di parlare con i suoi musicisti, Lanny (Kaye ndr.) e Jay Dee (Daugherty ndr.): ci hanno regalato due ore di interviste fantastiche. Poi ho intervistato i due organizzatori del primo concerto e infine due tasselli veramente fondamentali, Ernesto Assante e Gino Castaldo».

Il file rouge del film è il rapporto tra Patti Smith e Firenze, una dichiarazione d’amore reciproca che dura sin dal 1979, data simbolica per i concerti rock in Italia. Negli anni precedenti, infatti, gli artisti stranieri che si esibirono nel nostro Paese furono spesso vittime di pesanti disturbi sociali. Famoso il caso dei Led Zeppelin (nel 1971 al Vigorelli di Milano) che furono costretti a lasciare il palco dopo l’intervento della polizia, oppure quello di Carlos Santana che si ritrovò con gli strumenti incendiati da una molotov. Questi episodi e altri esclusero l’Italia dai tour degli artisti della scena rock mondiale. Fu proprio con l’arrivo di Patti e della sua band nel 1979 che si iniziò a respirare nuovamente un’aria più internazionale.

In Patti in Florence si vive molto non solo la musica, ma anche la città: «Nel film c’è una Firenze che purtroppo non c’è più o, perlomeno, che si sta estinguendo, come quella delle botteghe in San Frediano dove lei nel film canta. C’è ad esempio una sessione (che non è presente nel documentario ndr.) in cui lei scatta delle polaroid, legge dei versi mentre va in giro per i vicoli del centro storico. Ecco, oggi al posto dell’impagliatore di sedie c’è un bar, mentre al posto del corniciaio c’è un ristorante. Effettivamente oltre a mostrare la Firenze dei musei e dei monumenti si percepisce la città delle botteghe che purtroppo sta scomparendo».

Un lavoro decennale che Edoardo ha iniziato nel 2009. È stato l’ombra di Patti Smith per giorni, poi tutto si è fermato per alcuni anni fino al 2015: «Quando lessi che Patti Smith sarebbe tornata a Firenze chiesi subito se c’era qualcuno che l’avrebbe filmata. Mi risposero che nessuno ci aveva pensato, allora mi feci prestare una telecamera da un amico e iniziai a seguirla. Registrai queste cassette che poi consegnai alla produzione. Mi fu detto che non andavano bene: le immagini erano scure, in movimento. In poche parole, non buone. Le produzioni locali, e non di Patti Smith, si aspettavano un materiale più televisivo, ma non era quella la mia idea. Negli anni ho continuato a formarmi attraverso il teatro, il cinema, l’opera e poi, quando mi sono trasferito a Londra, ho avuto modo di conoscere una serie di registi e delle persone che mi hanno fatto capire che quelle riprese in realtà erano buone».

Patti in Florence presenta un lavoro di ricerca certosino, un ritorno nostalgico al passato documentato nei dettagli: «Il lavoro d’archivio, ossia il ricercare i giornali, le fotografie, parlare con le persone che c’erano sia al concerto del 1979 che trent’anni dopo, l’ho fatto io. Poi l’incontro con Guglielmi che è un collezionista incredibile che ha ritrovato le musiche originali del primo live. Ecco, anche questo lavoro di documentazione è bellissimo e mi appartiene poiché avevo un nonno collezionista e quindi so relazionarmi con queste persone. Mi viene naturale, è una curiosità che mi aiuta in questi casi per ottenere alcune informazioni. Mio nonno per anni ha viaggiato il mondo solo guardando la sua collezione di cartoline, quindi mi viene facile andare a frugare negli archivi o alla biblioteca nazionale per trovare cose inedite. La cosa di cui sono fiero è che questo materiale è tutto inedito, è una forza incredibile».

Patti Smith, la poetessa del rock, è un’artista a 360 gradi; nella sua arte si fonde non solo la musica, ma tanta letteratura, poesia, fotografia: «Lo scorso gennaio sono andato a New York e ho proprio notato che lei sarà ricordata in futuro non solo per la sua musica e come una delle maggiori esponenti del punk, ma anche per gli scritti, i libri e le fotografie polaroid. Per la parte letteraria lei proviene dalla beat generation e quindi sicuramente nell’arco di cent’anni sarà ricordata per essere una di loro; il Nobel che Bob Dylan le ha fatto ritirare è un esempio. Mentre per la fotografia ho visto delle sue foto esposte sia in un ristorante che lei frequenta, ma anche nei musei e in galleria d’arte; essendo stata la compagna di Mapplethorpe che ha scattato le polaroid più importanti al mondo lei si lega anche a questo mondo. Basti pensare che le poesie che scrive anche solo su Instagram fanno già storia da sé».