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LP, le confessioni senza filtri di una rockstar

Due lettere digitate su un motore di ricerca e una pagina di disambiguazione tra i risultati: LP. Sia che si tratti del long playing, il famoso 33 giri in vinile, sia che si parli di lei, Laura Pergolizzi, la musica la fa da padrone. Ma i due LP hanno molto di più in comune, a partire da un gusto nostalgico di fare e essere musica. Si può incidere di tutto su un vinile, che sia indie, rock, opera lirica o pop. E allo stesso modo la cantante italo-americana LP è difficile da racchiudere in un solo genere musicale. Lei è pop per il seguito di ascoltatori, è indie, è un pirata del rock ed è persino lirica, se si fa attenzione alle influenze presenti nei suoi brani.

Quando la chiamo, LP è a casa del suo manager a Los Angeles per mettere a punto le ultime strategie promo per l’uscita di How Low Can You Go (in Italia arriverà nelle radio l’8 gennaio). «Ha preso forma durante una full immersion in studio – mi dice – Stavamo ascoltando della musica e ad un certo punto ha iniziato a girarmi nella testa la frase “Last time I saw you, we did coke in a closet”, che poi è diventato il primo verso della canzone. È nata così, come fosse una storia. Ed era reale. Normalmente nelle mie canzoni parlo di circostanze ben specifiche, mentre in How Low Can You Go ho deciso di parlare di una collezione di momenti della mia vita, di quanto si possa andare in fondo, specie ad Hollywood. Adesso mi rendo conto di essere molto meglio di quanto non lo fossi un tempo e di quanto non lo fossi appena arrivata a Los Angeles».

Insomma, è un viaggio nel tuo passato. Che rapporto hai con il passare del tempo?
Un po’ come tutti apprezzo lo scorrere del tempo, allo stesso modo pero è difficile guardarsi indietro. È un po’ come guardare il tutto dall’esterno, come fosse uno spettacolo che va in scena dove tu sei l’unico spettatore. È come se fosse tutto attutito e cambiasse totalmente la nostra percezione.

Le tue canzoni come nascono?
Agli accordi o alla melodia possiamo lavorare in team, ma le parole, i temi di cui parlano i brani spetta a me deciderli. Spesso con i miei collaboratori stiamo là, senza avere nulla tra le mani e ci domandiamo: “Cosa facciamo?”. Poi in pochi secondi grazie ad un beat parte tutto. Io ad esempio colleziono in testa titoli e accordi. Per me il titolo è la cosa più importante perché esprime in poche parole il concetto della canzone. D’altronde sono quel tipo di artista che comunica idee tramite la musica.

Sei nata nella east coast, a Huntington. Cosa ti ha portato nella west coast?
I contratti discografici.

Ho sempre pensato che il tuo ruolo nella musica fosse quello di una pirata del rock & roll. Come sei riuscita a introdurre la ribellione nel mondo del pop mainstream?
Essendo semplicemente me stessa. Non ho mai voluto fare musica necessariamente nel modo in cui lo fanno gli altri. A conferma di ciò, posso citarti i nomi di artisti ai quali mi sento vicina, ma non riesco a citarti nemmeno un nome di qualcuno che io abbia emulato, nemmeno all’interno della stessa comunità LGBT. Come dici giustamente tu, mi sento semplicemente un pirata che cavalca i mari della propria identità.

A proposito di comunità LGBT, tu ne sei una sorta di portavoce. Senti la responsabilità addosso?
Decisamente sì, ma allo stesso tempo mi sento libera dalle responsabilità perché cerco semplicemente di guardare avanti ad un tempo in cui non ci dovranno necessariamente essere etichette a descrivere le persone. E so che un tempo così arriverà, perché deve arrivare. La società sta facendo passi avanti, me ne rendo conto anche dalle piccole cose, come quando vado in bagno e trovo toilette gender free. Vorrei ci fossero state quando ero più giovane, invece di quei disegni appiccati alle porte di donne raffigurate con la gonna.

Qual è la regola più importante che ti sei data nella musica?
Essere responsabile di ciò che produco. Le canzoni che faccio uscire sono come dei tatuaggi: restano per sempre. È importante fare musica di cui si vada fieri, che si senta. Quando scrivevo i testi delle canzoni per altri a nessuno interessava che fossi o meno nel mood per scrivere. Era solo un continuo “sei pronta? Me ne serve un’altra”. Adesso invece che scrivo per me voglio rispettare me stessa e i miei tempi. Voglio creare solo cose che sento mie.

Chi sono gli ultimi artisti che hai scoperto?
Ultimamente sono fissata con questo tipo, Tamino, lo chiamano il Jeff Buckley belga. È super romantico e lo adoro. Poi adoro anche Caroline Polachek, ha scritto una canzone fantastica che s’intitola So Hot You’re Hurting My Feelings.

Hai un tatuaggio di una pergamena con su scritto “Forever For Now”. In che senso?
Mi descrive perfettamente e si riaggancia bene al modo in cui abbiamo iniziato l’intervista, parlando di tempo e della percezione che abbiamo di esso. Ad esempio ora mi trovo nella casa del mio manager e davanti a me è appesa una gigantesca foto di Bowie. Quando penso a lui penso che è assurdo che per gran parte della mia vita lui fosse vivo, che abbia camminato su questa terra, ma che non lo farà più. In questo senso è stato “for now”, però la sua musica vivrà per sempre. Il “Forever For Now” che ho tatuato è nato come concetto mentre stavo registrando una canzone in studio. Volevo chiamarla semplicemente Forever ma il mio produttore continuava a ripetermi che era un titolo super inflazionato così, dal nulla, mi è venuto in mente questo “Forever For Now” (la traccia è contenuta nell’omonimo disco ndr.). Sul momento non era un concetto così profondo, ma più ci pensavo e più mi sembrava perfetto.

Cambiando discorso, come secondo te l’elezione di Joe Biden cambierà gli Stati Uniti?
Per me è una grande cosa anche solo non avere più Trump, un omuncolo che nemmeno riesce a mettere due parole in fila. Il giorno in cui ha vinto mi sono sentita come se fossi uscita da una sessione di tortura mentale durata quattro anni. Penso che il mondo sia decisamente imperfetto – che noi siamo imperfetti – ma dovremmo almeno provare a migliorarlo. E questo per me è stato un passo nella giusta direzione, invece che restare a guardare quel cretino privarci dei nostri diritti. Si fotta. L’era Trump è stata una completa disgrazia, spero venga cancellata dalla storia.

Qualche giorno fa in diretta Zoom Zucchero parlando dello streaming ci ha detto che spera “possa scoppiare da un momento all’altro”. Io credo invece che lo streaming abbia in qualche modo arginato il problema della pirateria musicale, insomma abbia sconfitto definitivamente Emule, LimeWire e tutte quelle piattaforme che per troppi anni hanno derubato gli artisti. Qual è il tuo punto di vista a riguardo?
Credo che lo streaming sia pazzesco poiché permette una diffusione capillare e istantanea della musica, ma comprendo le perplessità di Zucchero. Al mio primo contratto musicale ho condiviso lo studio con musicisti che avevano avuto l’opportunità di lavorare a canzoni sacre come True Colors di Cyndi Lauper o Livin’ On a Prayer di Bon Jovi e che mi raccontavano come negli anni Settanta e Ottanta gli artisti facessero milioni di dollari con una singola traccia. Ma le cose sono cambiate e io onestamente sono felice così. Credo che la musica sia una medicina per gli animi e proprio come l’accesso alle cure sanitarie, dovrebbe essere disponibile per tutti. Però posso capire perché chi era in questo settore da prima dello streaming oggi noti una differenza, specie su un piano monetario. Le cose però cambiano e devi dare una chance al cambiamento. Se non cavalchi il cambiamento, allora lui cavalcherà te. E io sono spaventata come tutti dal mutare delle cose, ad esempio di come tornerà la musica dal vivo. Non penso che le persone siano preparate a questo.

A proposito di questo, la tua musica è quanto di più live oriented si possa desiderare. Quanto soffri all’idea di non poter presentare al pubblico la tua musica nella sua dimensione ideale?
Quello che ho capito di me stessa è che sono una persona che si adatta senza troppi problemi. Prima del mio primo contratto discografico sono stata on the road per tre anni e mezzo, girando l’America in lungo e in largo. Quando poi ho firmato nel 2006 prima con Universal Music poi con SoBe Entertainment, mi sono fermata per cinque lunghi anni. All’inizio non ci ho pensato così tanto e mi sono accorta del fatto che mi fosse mancato solo quando ho ripreso a farlo. Ed è così anche adesso: non ci sto pensando più di tanto.

Non farai quindi livestream?
Sarò onesta, non mi piacciono questi concerti da salotto, li trovo decisamente fastidiosi. Io sono un fottuto marinaio, non posso mica navigare dal mio salotto. Quando ci daranno il via libera, tornerò sul palco. Pensarci ora mi rende solo fottutamente nostalgica.

Qualcuno ha detto che la nostalgia è la felicità di essere tristi.
Questa frase potrei utilizzarla nel mio prossimo pezzo.