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Guai a dire ai Mogwai che il rock è morto

Quando i Mogwai hanno iniziato le session di registrazione di As The Love Continue, più o meno all’inizio dello scorso anno quando il Regno Unito stava affrontando il primo lockdown, si sono trovati di fronte ad un bivio: registrare il solito disco o provare a sperimentare. Se conoscete la band di Glasgow, saprete probabilmente anche la strada che hanno deciso di intraprendere. Barry Burns, dalla sua seconda casa in Scozia dove si trova in attesa che un volo lo riporti a Berlino dove si è stabilito ormai da qualche anno, mi racconta il nuovo disco dei Mogwai, il decimo della loro carriera, prodotto a distanza da Dave Fridmann (MGMT, Tame Impala, Flaming Lips) e registrato nel Worcestershire in un monastero abbandonato («Per arrivare nello studio dovevi attraversare questo posto da brividi del XXI secolo», dice).

Quali sono state le impressioni a caldo rivedendo il live stream dell’altra sera?
È stato strano assistere ad un proprio concerto (ride ndr.). Con mia moglie ci siamo messi in salotto e lo abbiamo visto da là. La cosa bella – e strana allo stesso tempo – è che apparentemente la gente si è comunque messa in tiro, solo che questa volta non è dovuta uscire di casa. L’atmosfera però era quella.

Comunque immagino per voi sia stato traumatico esibirvi senza pubblico.
Ho iniziato ad essere consapevole della situazione, del contesto, alla terza canzone (Dry Fantasy ndr.). Suonavo e intanto pensavo quanto fosse strano che non ci fosse nessuno ad ascoltarci. Di sicuro non è stata la situazione ideale per un artista, ma riguardandolo, senza sapere o aver vissuto il “back”, lo si percepisce come un concerto normale.

A proposito di “concerti normali”, i Flaming Lips sono tornati esibirsi con il pubblico: sia loro che gli spettatori chiusi dentro delle bolle di plastica giganti. Pensi possa essere una strada percorribile per far ripartire il settore della musica live?
Tutto bello e divertente, ma cosa sarebbe accaduto se fosse scoppiato un incendio? Come Wayne Coyne (il leader dei Flaming Lips ndr.) – ma in realtà come tutti quelli che fanno il mio mestiere – anche io mi sono domandato il perché dello stop ai concerti; il perché non si potessero fare comunque eventi con una riduzione del pubblico dell’80 o 90%. Però se si va oltre l’indignazione, è facile comprendere le motivazioni: a livello logistico ed economico non è così semplice, a partire dal costo delle location che non potrebbero essere coperti. Credo che la cosa migliore che possiamo fare in questo momento sia aspettare tempi migliori.

I cinici dicono sempre che il rock è morto, ma ascoltando As The Love Continue non sembra.
La gente dice queste stronzate per infastidire, lo fa da sempre. Sono venti-trent’anni che si parla della morte del rock, ma basterebbe farsi un giro a Glasgow o entrare in qualche record shop per rendersi conto che non è vero.

Qual è stata la prima canzone a venir fuori?
Credo tutto sia partito da Dry Fantasy.

Il disco doveva essere registrato in America ma, causa pandemia, non avere potuto raggiungere Dave Fridmann. Immagino non sia stato facile lavorare a distanza.
L’aver già lavorato con Dave in passato ci ha aiutato poi va da sé che la tecnologia ci è corsa in aiuto, era come se fosse lì con noi. Devo ammettere però che all’inizio è stato strano, dove ci giravamo vedevamo il suo volto sullo schermo che ci fissava, era come stare nel libro di Orwell (1984 ndr.).

Però, nonostante sia nato durante il lockdown, non sembra affatto un disco cupo. O sbaglio?
Questa cosa non ce la sappiamo spiegare. Certi mood vengono fuori senza un motivo ben preciso e nel caso specifico di As The Love Continue neanche ne abbiamo parlato prima di entrare in studio.

Dopo 25 anni di carriera, c’è ancora qualcosa che vi preoccupa?
La paura di ripeterci c’è sempre. Ogni volta si deve restare fedeli alla propria identità ma nello stesso tempo devi stravolgerla per non incidere l’ennesimo disco uguale. In studio stiamo sempre lì a domandarci se quello che stiamo creando suonerà abbastanza diverso dal passato – dai vecchi Mogwai – il più delle volte ci riusciamo, ma non è scontato.

Rispetto a quando avete iniziato, alla metà degli anni Novanta, com’è cambiato il vostro modo di lavorare in studio?
All’inizio componevamo sempre fisicamente insieme, poi con gli anni e a causa del mio trasferimento in Germania abbiamo iniziato a lavorare da remoto e ad incontrarci solo in studio di registrazione. Questo modo di lavorare ha inevitabilmente trasformato il sound dei Mogwai in qualcosa di più sperimentale, che poi è quello degli ultimi dischi. Essere liberi di lavorare separatamente e poi combinarsi solo verso la fine permette una variazione e sperimentazione maggiore.

E il panorama musicale intorno a voi, lo percepisci mutato?
Quello cambia sempre ed è un bene. A volte mi imbatto in certe combinazioni nuove di generi che non credevo nemmeno potessero andare a braccetto. Come la marmellata e il burro d’arachidi, non so se l’hai mai provata, ma è ottima (ride ndr.).

C’è qualcosa in giro nel mondo del rock che ti piace?
Amo il country, quello di una volta.

Un segnale che il panorama sta cambiando è dato anche dal fatto che un disco di Taylor Swift (Folklore ndr.) è stato eletto Miglior album indie rock del 2020, fino a qualche anno fa sarebbe stato impensabile.
Su Taylor Swift avrei qualcosa da ridire, lei è passata nel giro di pochi anni dal pop al folk rock, quindi c’è da capire se veramente crede in quello che fa, se quello che lei pubblica da cantautrice è veramente scritto da lei. Spaziare così tanto tra generi non è affatto facile, io non ci riuscirei.

Però non è la prima ad aver attuato questa “evoluzione musicale”, mi vengono in mente i Radiohead, ma anche David Bowie.
Infatti in questi casi possono accadere due cose: la prima è che succeda come accaduto ai Radiohead, che hanno un quarto album (Kid A ndr.) totalmente diverso da ciò che avevano fatto con Ok Computer e The Bends. In quel caso ad alcune persone piacque, ma a quelli che sentivano i Radiohead per il sound precedente non andò a genio. Magari avrebbero anche amato quel sound se solo fosse stato l’album di qualcun altro, ma dai Radiohead si aspettavano un suono ben preciso che non riconobbero. La seconda opzione è essere come David Bowie: quando riesci a cambiare e affascinare senza confondere allora hai vinto.