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5 cose che abbiamo imparato dal docufilm su Notorious B.I.G.

Se c’era una leggenda che ancora non era stata raccontata come si deve, questa era Christopher Wallace, AKA Notorious B.I.G. Con 24 anni di ritardo è uscito su Netflix il documentario definitivo sulla sua carriera: ascesa, successo e morte. S’intitola Biggie: I Got a Story To Tell ed è uno di quei documentari privi di difetti, perché non solo racconta i successi, ma anche tutti quei passi falsi che hanno rischiato di compromettere tutto. Ecco le cinque cose che abbiamo imparato guardandolo.

Andava da New York al North Carolina per spacciare crack

Nei primi anni di carriera a Biggie non era chiara la faccenda della musica; era ancora scettico sul suo futuro artistico («Questa merda è vera o no?», chiedeva in continuazione, racconta il suo personal manager). Quindi molte delle cattive decisioni derivavano dal volersi sostentare e non essere al verde. Nel 1993 decide di andare in North Carolina dove poteva vendere a 20 dollari la stessa dose di crack che all’angolo di New York vendeva per 5 dollari. In quegli anni la sua carriera non era ancora esplosa (Ready To Die, il suo primo disco in studio, uscì l’anno dopo, nel 1994), ma era chiaro che la sua occasione la stava avendo. E la stava mandando a puttane.

La musica gli ha salvato la vita

Quando ha iniziato a dedicarsi alla musica e a concentrarsi sulla sua carriera, tutto cambiò. «Ero felice che stesse facendo qualcosa con la sua vita», racconta Voletta Wallance, la madre, verso la fine di I Got a Story To Tell. Con Ready To Die Notorious B.I.G. riscrisse le regole dell’hip hop. «Se ti trovavi tra la 145esima e l’ottava o su Flatbush Avenue, ti fermavi di fronte a Juniors, ogni singola auto che passava suonava Ready To Die», racconta il produttore Puff Daddy.

Sua madre rimase delusa da Ready To Die

È Voletta Wallace a raccontare gli aneddoti più interessanti del documentario, come quello legato all’uscita di Ready To Die. «Una mia amica mi fece notare che il disco conteneva un numero elevatissimo di bestemmie – racconta – Glielo feci notare e lui mi risposte che non dovevo ascoltare i suoi dischi». Biggie pensava infatti che i suoi dischi non fossero per chi avesse più di 35 anni. Da quel momento in poi la madre rimase lontana dalla musica del figlio. Ma anche dalla sua vita privata e criminale.

Non amava ascoltare l’hip hop

In un’intervista d’archivio, incastrata nelle prime scene del documentario, Biggie racconta di non apprezzare l’hip hop, nonostante faccia parte di questa scena. «Mi piace ascoltare vecchie canzoni lente. Tipo gli Stylistics o i Dramatics», dice. Ascolti che inevitabilmente hanno influenzato anche la sua musica, da molti Notorious era infatti considerato un cantante R&B, e questo spiega il perché i suoi brani erano caratterizzati da queste melodie non riconducibili al rap. «Era raro sentirlo rappare – dice ad un certo punto del documentario un suo stretto collaboratore – Non era chiaro da quale pianeta del rap venisse questo ragazzo».

I suoi collaboratori dovevano filmare le reazioni del pubblico ad ogni suo show

Tra le richieste più assurde che venivano fatte da Biggie ai suoi collaboratori c’era quella di filmare le reazioni dei fan che accorrevano ai suoi concerti. I video venivano poi portati negli studi di New York e studiati dal rapper al fine di creare setlist perfette. Diceva: «Voglio vedere le reazioni, almeno quando mettiamo insieme lo show, so quali canzoni sono più forti». Frame dopo frame, viene fuori quanto per Notorious i live fossero importanti: che cantasse di fronte a 500 persone o in arene da 10.000 posti, dava ogni volta il 100%.