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L’isolamento ha fatto bene a Sting

È da metà anni Ottanta, da quelle indimenticabili tartarughe blu (The Dream of the Blue Turtles), che attendo ogni uscita di Sting con tanto affetto quanta ansia. Ma da un po’ di anni (un bel po’ a dire il vero) la delusione, o la quasi delusione, è una certezza. Si è passati da noiosissimi deliri pseudoceltici a pop talmente spinto da essere parossistico. E, ahinoi, nessun pezzo degno di reale nota è più uscito dalla sua penna. Questo almeno dal vecchio e bel Brand New Day del 1999 (ormai un bel po’ di tempo fa). Ed è a questo punto che il lockdown ha fatto inaspettatamente il miracolo. Forse complice anche l’interruzione di quel never ending tour che evidentemente lo distraeva troppo, soddisfacendo desideri forse più materiali che spirituali, Sting ha avuto il tempo di scrivere e di costruire, intorno a partiture perfette come non se ne vedevano da tempo, arrangiamenti e costruzioni armoniche degne di quelle degli anni d’oro. Con The Bridge si vola alto, decisamente alto, in un disco bello e malinconico che ricorda, anche come organico, quel The Soul Cages che per noi è da sempre una vetta assoluta nella discografia di Sting. Con questo disco l’ex Police si conferma di essere sempre e ancora lui, al massimo della forma. Chiaramente, e magari questo può fare incazzare, solo quando vuole.