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Con “Cultural Sons of Scotland” i Biffy Clyro ci svelano il loro mondo

Nell’immaginario comune, la Scozia è la terra delle distese sterminate, degli specchi d’acqua che si riflettono sul cielo argentato, delle atmosfere arcaiche che circondano castelli consumati dal tempo. Un paesaggio magnetico che profuma di romanticismo e mistero gotico, uno scenario cinematografico che rimanda inevitabilmente ad imprese eroiche. Una su tutte, quella di William Wallace, condottiero dal cuore impavido che lottò per la libertà del suo popolo dalla Corona inglese, nella seconda metà del XIII secolo. Chi non ricorda Braveheart, il film con Mel Gibson del 1995? Il monologo audace all’esercito di ribelli, i volti orgogliosi e tinti di blu, colore iconico della nazione. Sono quelle tinte a scorrere nel sangue di tutti gli scozzesi e sono le stesse che compaiono come impronta cromatica in Biffy Clyro – Cultural Sons of Scotland (il titolo, da uno dei versi del brano Creative Burns di Lonely Revolutions) diretto da Jack Lowe e disponibile su Amazon Music e Prime Video. Alla vigilia del ventesimo anniversario dell’album di debutto, Blackened Sky, la band capitanata da Simon Neil decide di avventurarsi in direzione di un duplice territorio inesplorato. Nel primo si intersecano le radici patrie, il legame con le proprie origini nell’Ayrshire e le coordinate cronologiche, dalla formazione ad oggi. Mai prima d’ora i Biffy Clyro si erano fermati per guardarsi indietro, tirando somme personali e professionali: «È qualcosa che forse non avremmo considerato se non ci fosse stata la pandemia. Non siamo una band che necessariamente riflette o fa molti bilanci, andiamo sempre avanti. Credo che fosse il momento giusto. All’inizio il focus era sulla realizzazione del nuovo album ma abbiamo pensato che non sarebbe stato giusto non ricollegarci ai nostri esordi. È stata davvero un’esperienza particolare: si sono spalancate nuove visioni e nuove prospettive come gruppo».

Il secondo è delimitato dalle pareti di uno studio di registrazione d’eccezione, incastonato tra le campagne ed adiacente ad una fattoria. L’headquarter dove nessun occhio esterno era mai entrato, il rifugio creativo in cui ha preso suono e forma The Myth of the Happily Ever After, l’album più recente, il nono della discografia ed il solo registrato per intero in Scozia: «Abbiamo fatto questo disco nella stessa parte del mondo in cui ho scritto la mia prima canzone» – ha dichiarato il frontman – «C’è qualcosa di profondamente autentico in tutto ciò». Infinite avventure, per un unico, entusiasmante viaggio. Salite a bordo e alzate il volume. «Record this?» è la domanda campionata dai secondi iniziali del brano Wolves of Winter (Ellipsis, 2018) che inaugura i primi frame del docufilm. È l’espressione più adatta per descrivere la sensazione inedita di essere seguiti dalle telecamere, già dalla fase di composizione. «Siamo abbastanza protettivi riguardo le nostre cose ma Jack ci ha fatto capire perché avremmo dovuto lasciarci andare. Mi ha colpito guardare il risultato e rendermi conto che due o tre anni fa non avremmo mai concesso l’ingresso in studio. E poi abbiamo invitato il mondo in quel posto. Ci siamo immersi a pieno titolo in questo progetto quindi non sentivamo la pressione per il fatto che la gente vedesse il nostro mondo. Abbiamo davvero aperto la porta». Affermazioni che non stupiscono soprattutto coloro che seguono i Biffy da tempo immemore, apprezzando la capacità di rimanere sempre fedeli a loro stessi, pur avendo scalato – dal 1995 ad oggi – le vette più alte del rock alternative (e non solo), a livello internazionale. Il 1995 è proprio l’anno di formazione del power trio, forgiato dal talento, dall’urgenza artistica, dal desiderio di farcela. Asso nella manica l’unione indissolubile dei gemelli Johnston alla sezione ritmica – «Abbiamo iniziato a suonare nel garage di casa nostra già da bambini. Chissà che cosa avranno pensato i nostri vicini» – e del genio creativo di Simon Neil, fonte inesauribile di idee, parole, riff evocativi e sensibilità. «Volevamo fare musica per l’amore della musica. È l’obiettivo che ci poniamo nel quotidiano. E volevamo fare anche incazzare la gente» – ammette il bassista – «Rientra nel temperamento di noi scozzesi. Abbiamo una prospettiva abbastanza singolare, siamo ruvidi in superficie ma abbiamo tutti del romanticismo nei nostri cuori».

E come si collega tutto questo con il nome Biffy Clyro? Che cosa significa? Ben spiega che il nome è letteralmente un acronimo per “Big Imagination For Feeling Young ‘Cos Life Yearns Real Optimism”, aggiungendo: «È ciò che ci tiene in vita. Abbiamo anche rinunciato ad un contratto discografico ad inizio carriera perché ci rifiutammo di cambiare il nome. Rimanere fedeli a se stessi e alle proprie idee è fondamentale». Una scintilla, una scossa di passione, coesione, determinazione che corre lungo quel filo blu, lungo i ricordi dei locali delle prime esibizioni, tra imprevisti tecnici e richieste poco allineate («Ci chiedevano di suonare gli Oasis o qualsiasi altra cosa, tranne quello che stavamo facendo»), tra chilometri macinati in giro per il mondo, convivenze mai forzate («Se riesci a passare quattro settimane in un furgone con i tuoi due migliori amici e divertirti come non mai, resta in quella band») ed esperienze dolorose, sempre condivise. Nel documentario, i tre protagonisti ci accompagnano a visitare i luoghi in cui sono nati e cresciuti, riscoprono con meraviglia il mare che bagna le coste vicino Ayr, riassaporano il gusto delle piccole cose, dei confini della provincia così respingente, allora, così familiare, ora. Ci troviamo ad essere spettatori privilegiati di immagini e video di repertorio che dai primi shooting promozionali arrivano ad arene e palchi infuocati. Un itinerario che conduce sino al penultimo lavoro in studio, A Celebration Of Endings, registrato a Los Angeles – «Quando sei in una città dall’altra parte del mondo, senti qualcosa di più perfomativo che ha a che fare con l’ego. Ti continui a ripetere “Qui è dove QUEL TALE ha registro QUEL CAPOLAVORO”» – e contraddistinto da un titolo quanto mai allineato, involontariamente, al frangente storico in cui è stato pubblicato. La fine di un’era, quella prepandemica, ed il principio di quella sospensione universale che, da marzo 2020, ha catapultato tutti in una dimensione di dubbio, dolore e isolamento. «Avevamo appena concluso il disco ma abbiamo dovuto rimandare anche l’uscita, senza sapere che ne sarebbe stato del tour e della vita che conoscevamo. Mi sentivo vuoto» – ricorda Neil.

It’s only real if you can’t replace it” recita un verso di Instant History, traccia numero otto di A Celebration Of Endings. Un verso dogmatico che disegna i contorni della consapevolezza di non poter fare a meno di quella dimensione, sopraffatta da domande esistenziali – «È ciò che amiamo fare, ciò che sappiamo fare meglio. E ora?» – pur tentando di restare sempre connessi, come band e con i fan. Chi ricorda i livestreaming di Simon nel tardo pomeriggio della primavera 2020? Era un appuntamento fisso, una panacea per la mancanza di musica live e della loro musica live. Grazie alla regia home made di Francesca Pieroni Neil, moglie del cantante, quei quaranta minuti si trasformavano in intimo ristoro, in uno scrigno di perle dal repertorio dei Biffy Clyro, in attesissima anteprima per qualche notizia sul destino dell’album, pubblicato nell’agosto 2020, a cui seguì il concerto al Barrowland Ballroom di Glasgow, un club di fondamentale rilevanza per la storia del gruppo. Un’esibizione senza pubblico, presenziata soltanto da una sezione di archi, dai tecnici e dai una schiera di manichini, simboli inequivocabili di quel frangente. Tuttavia A Celebration of Endings doveva prendere vita e quello era l’unico modo: «Percepiamo a pieno il significato dei brani solo quando li suoniamo live. Era la prima volta che suonavamo senza pubblico ma organizzare quella session al Barrowland è una delle cose che ci rende più orgogliosi. Dovevamo esserci, volevamo esserci».

«Una volta completato A Celebration of Endings ho detto: “Ok, e adesso?”. Così ho iniziato a scrivere nuovi pezzi» – spiega Simon, sfoggiando il suo inequivocabile sorriso. Chiamati a raccolta i ragazzi, il quartier generale situato nella fattoria nella contea sud della Scozia ha riacceso microfoni e amplificatori. Da una parte, l’attività agricola dei proprietari della tenuta, dall’altra il lavoro sul nono album a sorpresa, The Myth of the Happily Ever After. «Le nostre difese erano abbassate, avendo deciso di registrare in Scozia. Siamo stati in grado di esplorare le canzoni senza alcuna consapevolezza esterna, nessuno sapeva che stavamo facendo il disco: è stato davvero liberatorio. In condizioni “normali” non ci saremmo sentiti così liberi dallo stress, senza cercare di raggiungere un obiettivo. Di solito c’è un obiettivo mentre questa volta non sapevamo né la destinazione delle canzoni né tutto il resto. Non credo che abbiamo mai fatto un disco con questa prospettiva». Specchio di questa ispirazione è il sound ancora più irregolare di quello a cui i Biffy hanno abituato il proprio pubblico. Il focus sulla genesi delle canzoni che appare in Cultural Sons of Scotland – da Dum Dum elevata a manifesto di qualcosa mai ascoltato all’esplosione distopica di Slurpy Slurpu Sleep Sleep – sottolinea quanto “l’impresa scozzese” non abbia portato soltanto alla realizzazione dell’album gemello/parallelo (come da loro tradizione) di A Celebration of Endings ma anche ad un prodotto unico nel suo genere. Il produttore Adam Noble ne ha saputo cogliere da subito l’essenza, caldeggiando la registrazione quasi a presa diretta, confrontandosi con la band, vivendone la quotidianità, sia artistica che non. Alle scene dominate da strumenti e stanze insonorizzate se ne alternano altre esilaranti dove si vede Ben ai fornelli, Simon alle prese con i vocalizzi, James che cammina con aria riflessiva nella campagna che circonda la fattoria. «Abbiamo chiesto al nostro regista: “Ma non dovrebbe essere più artistico?”. E lui ha sottolineato che non si trattava tanto di fare l’album, ma di stare insieme e superare una sfida. Era importante collezionare anche quei momenti… ci sono voluti un montaggio o due per capirlo a fondo. Ci siamo affidati completamente a Jack e alla sua visione del film, allontanandoci dal nostro istinto di essere più riservati. Ricordo il suo disappunto per la mail con 92 note. Se fosse stato per me, sarebbe stato un film di 12 minuti».

Guardando i loro occhi, divertendoci per le fragorose risate, ripercorrendo la geografia emotiva tracciata dalle bandiere di tutto il mondo donate dai fan e appese ai muri dello studio, si diventa testimoni di una sorta di rigenerazione. Ne è prova anche una recente intervista rilasciata a Rocksound in cui James Johnston confessa di essersi immobilizzato, nonostante gli anni trascorsi fianco a fianco, nell’ascoltare la voce del suo compagno di band: «È successo mentre Simon stava cantando Denier. Ho pensato: “Ma sentite questa cazzo di voce?”». Non poteva mancare l’happy ending. Il documentario si conclude sul palco del Glasgow Green, lo scorso settembre. The Myth of the Happily Ever After finalmente on stage e, con l’album, anche l’adrenalina che precede ogni live: quegli istanti in cui tutto il resto scompare, il cuore batte all’unisono con le mani della folla scalpitante e ci si mette a nudo (simbolicamente e letteralmente, nel gesto dei Biffy di togliersi le maglie prima di suonare). Ecco il compimento di un ciclo, quando tutto torna al proprio posto. E quel posto è casa, la Scozia, nazione che inneggia da sempre alla libertà, a quello slancio che punta alle stelle. A quella “cultura” secondo la quale se ci credi davvero, tutto è possibile, soprattutto se condiviso con le persone che ami. «Non si tratta di competenza tecnica o ambizioni, si tratta di vivere il momento e godersi ciò che si fa, perché tutto il resto è fuori dal tuo controllo. Penso che alcune band possano formarsi con grandi musicisti ma inevitabilmente la chimica si disintegra» – chiarisce Simon Neil – «La cosa fondamentale del far parte di una band è essere un gruppo di amici. Noi siamo fortunati ad esserlo da quando abbiamo sette, otto anni. Condividere le esperienze più disparate in giro per il mondo con coloro che consideri i tuoi migliori amici non ha prezzo. È incredibile quello che le persone possono fare a casa, iniziando a suonare dalla loro camera da letto. C’è ancora un sacco di romanticismo in tutto ciò ed il segreto è non dimenticarlo mai». E aggiunge James: «Spero che questo documentario arrivi a chiunque stia facendo qualcosa che la gente considera spazzatura. È successo anche a noi ma ce ne siamo sempre fregati perché amiamo quello che facciamo. Quindi, chiunque là fuori si senta delegittimato, spaventato e non sappia che cosa fare di se stesso, il messaggio è: “Puoi fare qualsiasi cosa, cazzo!”».