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I The National non sono mai stati così uniti come ora

Sono affezionatissima ai The National. Con il loro concerto si aprì la mia esperienza allo Sziget Festival nel 2019, in un’atmosfera di totale stupore, per il contesto e – soprattutto – per la loro musica che, fino a quel momento, avevo ascoltato in modo troppo accademico. Di fronte al kaleidoscopio di luci della ruota panoramica, la resa sonora era stata impeccabile. L’equilibrio dei ricercatissimi set strumentali, la performance straordinaria di Berninger – ce lo trovammo nel parterre a cantare a due passi da noi – e l’energia della band regalarono un’esperienza totalizzante, quasi spirituale. Qual è lo spirito che muove il gruppo di Cincinnati in questo spaccato storico? Li abbiamo incontrati su Zoom durante un day off del tour europeo. Alcune anticipazioni sulle canzoni che andranno a comporre il prossimo lavoro in studio derivano da una domanda che riguarda il processo creativo di Berninger e compagni, il flusso che lo contraddistingue e la sua caratterizzazione emotiva ed empatica. «Della musica insignificante non ci interessa. Il frutto di ciò che creiamo deve creare un legame emotivo prima di tutto fra noi come membri della band e poi con i nostri fan, che ascoltano e che vengono ai concerti – dice Scott Devendorf, il bassista – I nuovi brani si presentano in modo tradizionale in termini di sound ma hanno un tocco di spiccata energia».

«Ci siamo concentrati su una dozzina di canzoni, senza perderci in un processo di scrittura infinita – continua Devendorf – Sono abbastanza essenziali, benché la produzione sia raffinata con presenza di archi e arrangiamenti particolari. Tuttavia, se prima eravamo portati a inserire elementi altisonanti, ora vogliamo rimanere fedeli alla parte più strutturale. Alle nostre orecchie, l’album risulta differente, credo che sarà così anche per chi lo ascolterà, pur non volendo venir meno all’emotività che abbiamo sempre infuso nei nostri brani». In occasione dell’anniversario dell’uscita di Boxer, tappa numero quattro all’interno della loro discografia e faro che attirò gli occhi della critica e del pubblico, la band ha pubblicato sui social una serie di foto. «Si parla di un periodo completamente diverso, sia per la band sia come situazione storica generale. Ci divertivamo molto ma percepivamo anche tanta tensione, conseguente all’uscita di Alligators, che segnò l’esordio per la Beggars», ricorda Devendorf. «Le sessioni avvenivano da una casa in cui abitavamo tutti insieme, provavamo continuamente e per metà il disco è nato così. Poi siamo entrati in un loop, più o meno verso la fine: non volevamo ripeterci sia da un punto di vista di sonorità che di testi. Tutto rianalizzato verso per verso, parola per parola. Quindi sì, ci siamo divertiti ma è stato anche frustrante e, per qualche aspetto, un po’ deprimente».

E il presente? Impossibile non menzionare i percorsi paralleli intrapresi dai componenti. «Taylor Swift? Neanche noi credevamo potesse essere possibile trovare una linea in comune, dieci anni fa», ammette. Da universi distanti, però, possono derivare risultati di grande valore, seppur inaspettati. «Per alcuni tratti, Taylor può essere definita un’artista indie. È l’autrice delle sue canzoni, rimane fedele alla sua etica e, anche per questo motivo, si imbatte in criticità con la sua casa discografica». In quest’ottica, ma declinato come produzione che racchiude un sentito tributo, si approfondiscono anche le intenzioni e le ispirazioni che hanno condotto Aaron Dessner, Bryce Dessner e Josh Kaufman a omaggiare i Greatful Dead attraverso la compilation Day of the Dead, a scopo benefico. In un clima di condivisione molto vicino ad una jam session, sono stati coinvolti colleghi ed amici. «Abbiamo sempre ammirato i Greatful Dead, sono un nostro pilastro per spunti creativi e per etica del lavoro. Siamo stati contenti del risultato e della bell’atmosfera in cui ci siamo immersi». Il tema della contemporaneità porta inevitabilmente con sé anche le sfumature politiche. Dall’essere stati la colonna sonora della marcia trionfale che condusse alla Casa Bianca Barack Obama nel 2008 – con Fake Empire – ai presagi malinconici e piuttosto funesti che si respiravano nelle liriche di Sleep Well Beast (2017), quando il panorama politico negli Stati Uniti stava prendendo una brutta piega, di cose ne sono successe.

«Non ci riteniamo un gruppo politico in senso stretto ma abbiamo sempre sostenuto alcune cause, vedi quella del diritto all’aborto di recente. Come americani, sappiamo che la nostra terra è sempre stata uno scenario complesso e sappiamo anche che, negli ultimi cinque anni, la situazione è purtroppo peggiorata. Quello di cui siamo certi fino in fondo è che ci consideriamo grandi sostenitori dell’indipendenza delle persone», mi spiega. Per concludere, impossibile non citare il loro ritorno in Italia previsto per giugno. «Suoneremo alcuni pezzi inediti che abbiamo già proposto in Europa. In generale, sono molto contento del miglioramento della performance in termini di coinvolgimento ed anche coesione della band. Ammetto che gli avvenimenti degli ultimi anni, l’impegno che comportano le rispettive famiglie abbiano avuto influenzato le vecchie abitudini. Tuttavia l’obiettivo rimane quello di fare del nostro meglio».