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Gli Arctic Monkeys sono diventati una band per palati sopraffini

Tarda serata in una città straniera. Guidati dal suono ovattato dei bassi di una musica che non riconoscete ma vi piace, vi ritrovate in uno di quei locali – il più delle volte sotterranei – in cui fanno serate hip hop. Ci sono ragazzi e ragazze con le treccine, maglie lunghe, per lo più da basket, sneakers giganti e coloratissime ma soprattutto un deejay che scratcha i Beastie Boys. Tutto interessante, se non fosse che con te c’è un amico, vestito con una giacca taglia XL color panna e una camicia a righini bianchi e celesti. Ha i capelli lunghi e arruffati e ai piedi mocassini in pelle lucida. Si guarda intorno: non si è mai sentito così diverso in vita sua. Ma gli piace. E allora ecco che il tipo strano e affascinante del rock lo ha fatto ancora. Nella notte è uscito There’d Better Be A Mirrorball, il primo singolo degli Arctic Monkeys che anticipa The Car, il loro settimo album in studio.

È sempre stato facile parlare della band di Alex Turner: la musica degli Arctic Monkeys piace a tutti, live infiammano il palco con la loro estetica elegante, eccetera eccetera. C’è però un disco (ovviamente Tranquility Base Hotel & Casino) che ha rappresentato uno spartiacque nel loro percorso e che ha destabilizzato fan della prima ora e ascoltatori occasionali. Alla luce di questo grande punto interrogativo discografico, che mai come prima aveva diviso nei giudizi, ecco che con il cronografo in mano, eravamo tutti in trepidante attesa di scoprire se quel progetto fosse stato una parentesi tonda o una parentesi graffa all’interno di questa affascinante equazione. Un’equazione lineare e di primo grado fino a AM – il capolavoro in grado di mettere d’accordo tutti – e divenuta (ora possiamo dirlo con un limitato margine d’errore) complessa e di secondo grado. Questo è evidente già dopo il primissimo ascolto di There’d Better Be A Mirrorball: un brano sofisticato, dal sound antico, verrebbe da dire. Un pezzo che però non può, perché di base non vuole, ambire a scalare le classifiche. C’è quel retrogusto dei Doors, che sembrava praticamente evaporato per sempre, in quanto démodé, ma che invece qui prende una piega interessante. C’è la voce di Turner, che è sensuale ma in certi passaggi quasi approssimativa, c’è un sound altissimo per palati sopraffini e c’è un videoclip che rimarca la natura granulosa e materica di questo nuovo momento degli Arctic Monkeys. Niente colori sgargianti, niente riff appealing, niente plastica, solo materia intangibile.

Cosa dire dunque di There’d Better Be A Mirrorball? Ma soprattutto, cosa vuole dimostrare la band di Sheffield? Provo a rispondervi io, in attesa di fonti ufficiali: che gli Arctic Monkeys non hanno alcuna intenzione di continuare ad essere per tutti, che l’ambizione è un dono che va protetto dalle lusinghe del verde frusciante e che, se il buongiorno si vede dal mattino, siamo di fronte ad un nuovo album divisivo. Le controindicazioni, ovviamente ci sono. Essere radical chic non è mai un bene, per cui sarebbe un vero peccato se ci voltassimo un attimo in mezzo al party hip hip e non trovassimo più il nostro amico in giacca panna. Perché la responsabilità di una rivoluzione risiede nel contesto in cui essa esplode. E, se ti chiami Alex Turner, leggere Verlaine al circolo della poesia del mercoledì, di fronte a dieci invasati che ti guardano assorti, è senz’altro uno spreco di talento. Se sei Alex Turner devi spostare gli equilibri e riscrivere le regole del gioco, costi quel che costi. È un dovere morale.