Nelle scene iniziali del documentario di Jack Lowe, Cultural Sons of Scotland, era proprio lui a spiegare il significato del nome della band: «È letteralmente un acronimo per Big Imagination For Feeling Young ‘Cos Life Yearns Real Optimism. È ciò che ci tiene in vita. Abbiamo anche rinunciato ad un contratto discografico ad inizio carriera perché ci rifiutammo di cambiare il nome. Rimanere fedeli a sé stessi e alle proprie idee è fondamentale». A parlare è Ben Johnston, batterista dei Biffy Clyro che, sin dagli esordi, sfugge ad ogni tipo di definizione: il loro genere è una fantasmagoria di alternative rock, raffinatissimo elettropop sperimentale con striature metal (Dio benedica gli acuti aspri e accorati di Simon Neil). A settembre la band sarà in concerto al Carroponte di Milano (la data da segnare sul calendario è quella del 14 settembre), appuntamento attesissimo dopo i vari rinvii dovuti alle restrizioni del periodo più critico della pandemia. A dire la verità, l’intero tour è stato attesissimo dai Biffy Clyro stessi, impazienti di portare sul palco le canzoni dell’ottavo album, A Celebration of Endings, e del successivo disco gemello, The Myth of the Happily Ever After, registrato interamente nella loro terra natia durante il lockdown. «Ai tempi della release ormai vicinissima di A Celebration of Endings, è stato orribile realizzare che non potevamo suonare dal vivo. Quelle canzoni, come tutte le nostre canzoni, sono ispirate e pensate per essere suonate di fronte ad un pubblico. È stato incredibile portarle finalmente all’interno del loro habitat naturale».
Ne avevamo avuto un accenno in occasione dei live streaming dalla casa Simon Neil nella primavera del 2020 – Holy Water, traccia numero sei dell’ultimo lavoro in studio, era stata presentata per la prima volta in queste dirette – per poi assistere, di fronte agli schermi, alla prova generale del concerto blindato al Barrowland Ballroom di Glasgow, il club «del cuore» del trio dell’Ayrshire. Un’esibizione incredibile – tanto da diventare un EP – ma senza spettatori, presenziata soltanto da una sezione di archi, dai tecnici e dai una schiera di manichini, simboli inequivocabili di quel frangente. «Credo che il mondo sia letteralmente cambiato negli ultimi due anni, è inevitabile. Abbiamo notato dei cambiamenti anche nel modo di vivere la dimensione live, forse c’è una necessità fisiologica di riadattamento. Ciò che non cambia, però, sono le espressioni colme di gioia, talvolta fino alle lacrime, per il fatto di essere proprio lì», mi spiegano. «Un altro elemento che ci ha sorpreso è l’eterogeneità del pubblico. Ci sono molti più giovani, magari di quindici o sedici anni che hanno iniziato ad ascoltarci a casa durante il lockdown e adesso vengono ai nostri concerti. L’interazione tra generazioni è sempre entusiasmante. La condivisione tra noi e i nostri è sempre potentissima. Abbiamo capito di essere tornati nel posto giusto».
Con un tour internazionale ripreso ormai a pieno ritmo, con tappe da headliner al Download Festival e al Lollapalooza, sorge spontanea la domanda sul futuro della produzione discografica. È vero, non c’è di che preoccuparsi con quattro album all’attivo negli ultimi sei anni, ma che ne sarà ora della gestione del flusso creativo per un potenziale nuovo materiale? «Non smettiamo mai di scrivere – garantisce uno dei due gemelli Johnston (l’altro, James, è il bassista) – È fondamentale mantenere sempre il dispositivo funzionante, avere un orizzonte aperto su cui camminare artisticamente parlando. Creiamo di continuo e, in termini di demo, abbiamo già qualcosa di interessante. Ma ricominciare a girare in tour è bello e non abbiamo particolare fretta di tornare in studio». A tal proposito, in una recente intervista, Simon Neil si era posizionato sulla stessa linea di pensiero, dichiarando di non voler forzare la musica: «Vorrei che l’ispirazione fosse spontanea. Mi piace il brivido del non aver scritto nulla per un po’, ma quella sensazione significa anche chiedersi se scriverò mai più una canzone», spiega Neil. «Mi solletica da un po’ l’idea di realizzare canzoni diverse con produttori diversi. Quando abbiamo realizzato Balance, Not Symmetry, il concetto era proprio questo. Anche se i brani sono stati concepiti tutti con lo stesso produttore, Adam Noble, ognuno doveva suonare come il frutto di una band leggermente diversa, come un mixtape universitario. Sarebbe bello sentirsi a nudo all’inizio di ogni canzone e non avere assolutamente idea di dove andrà a parare».
Da una parte le prospettive future, dall’altra il passato: dalla prima incarnazione di quello che sarebbero poi diventati i Biffy Clyro, fondata nel 1995 dal quindicenne Simon Neil che recluta i fratelli Johnston, al tetto del mondo della musica mondiale. «Ci piace ricostruire le storie e gli aneddoti sui nostri album passati. Spesso sorridiamo pensando che alcune canzoni non sono mai state suonate dal vivo, soprattutto quelle dei dischi gemelli come Similarities, o che le setlist di alcune date live al Barrowland venivano decise interamente dal pubblico. Ogni volta la conclusione era la stessa: ok, non lo facciamo mai più». Un passato talvolta anche ingombrante e nemmeno troppo lontano, in cui l’essere prima di tutto amici è stato decisivo per le sorti della band. La scorsa primavera, durante la seconda settimana di tournée in Nord America, Neil è stato colto da una crisi identitaria, probabilmente accentuata dall’ulteriore stravolgimento di stile di vita: «Non riuscivo ad accettare di essere Simon dei Biffy Clyro. Avevamo previsto che sarebbe stata dura, ma gli ultimi due anni hanno comportato dei sovvertimenti dagli effetti non immediati. Ero sul punto di abbandonare il tour ma ho capito che se non avessi superato quel limite, non sarei mai stato in grado di tornare su un palco». Grazie anche al confronto con Ben, James ed un suo interlocutore fidato, Simon ha desistito, ritrovando la concentrazione: «Mi hanno ricordato che questo è ciò che sono e che questo è ciò che faccio».
All’allarme rientrato corrisponde il desiderio ancora più impellente di vedere di nuovo i Biffy Clyro dal vivo, in Italia. Dopo aver visto scorrere le bandiere tricolore regalate dai fan nelle riprese di Cultural Sons of Scotland, come parte dell’arredamento del loro quartier generale fra le campagne scozzesi, ora in molti sono pronti a sventolarle dalle transenne del Carroponte. «Siamo davvero contenti di tornare. Aprire ai Rolling Stones a Roma nel 2007 è stata una delle esperienze più folli che abbia mai fatto. Da allora il nostro rapporto con i fan italiani è diventato sempre più forte e autentico». Insomma, sembra davvero tutto pronto per assistere al live di quella che è stata nominata da Kerrang la migliore band della scena britannica. Una nomina che, alla soglia dei trent’anni di carriera, nonostante l’autoironia e l’attitudine a rifuggire i riflettori dei tre componenti, pare essere accettata più di buon grado. «Prima ignoravamo ogni celebrazione ma ora c’è una parte di noi che pensa: “Siamo fottutamente brillanti”». Quando al termine della chiacchierata gli chiediamo se si sentono tranquilli nell’accettare una tale responsabilità, anche Ben conferma questa tesi: «La nostra abitudine è sempre stata quella di pensare a noi stessi come a una piccola band ma già da quando eravamo una piccola band sognavamo di diventare una grande band. Ora possiamo dire di esserlo».