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I Coma Cose hanno avuto bisogno di perdersi per ritrovarsi

I Coma Cose tornano con un disco che è una fotografia sincera, schietta e senza peli sulla lingua per raccontare la loro evoluzione.

Mi ritrovo al telefono con i Coma Cose un giovedì mattina. Dall’altra parte della cornetta, Fausto e Francesca mi dicono di trovarsi in un bunker-hotel di Firenze e di essere in partenza per Bologna. «Abbiamo girato tanto in quest’ultima settimana, tra Milano, Roma e Torino. È bello perché dopo tanto tempo possiamo finalmente parlare faccia a faccia con i nostri fan più stretti e affezionati. Vogliamo sentire quello che hanno provato dopo aver ascoltato il nuovo disco». L’album in questione è Un meraviglioso modo di salvarsi prodotto dagli storici collaboratori Mamakass, oltre che dallo stesso Fausto. Una fotografia sincera, schietta e senza peli sulla lingua che vuole raccontare l’evoluzione personale ed artistico del duo. Un disco intenso, in cui la comunicazione, l’uso smisurato della tecnologia e la crisi dei rapporti personali si ritrovano al centro della narrazione. Un LP che è anche frutto dell’allontanamento, come mi raccontano. «Quello che ci piace fare con la nostra musica, è raccontare una sorta di diario delle nostre vite. Dopo cinque anni di lavoro ininterrotto, il periodo di massima esposizione legato a Sanremo, un tour lunghissimo e l’avvento della pandemia, abbiamo sentito il bisogno di ritrovarci. Crescendo cambia anche la considerazione del nostro passato. A vent’anni vedi la tua adolescenza in un modo, a trenta in un altro».

Un meraviglioso modo di salvarsi è ricco di influenze e sonorità che riflettono appieno il complesso e vibrante universo pop dei Coma Cose fin dai loro primi passi nella musica. «Conosco i Mamakass da sette anni, più o meno da quando conosco anche Francesca», mi dice Fausto. «Avevamo già lavorato insieme ad un progetto cantautoriale, prima della nascita effettiva dei Coma Cose. Poi è arrivata Fra, che ha sparigliato tutto, e ci siamo resi conto che fosse più interessante lavorare ad un progetto di coppia. Loro sono presenti dal giorno zero. Siamo coetanei, abbiamo tutti più di quarant’anni e va da sé che abbiamo una collezione di dischi non indifferente. Abbiamo vissuto gli anni in cui quando ci si appassionava ad un genere, lo si succhiava veramente fino al midollo. Se ti piaceva il punk, lo ascoltavi fisso per due anni. Questa cosa ha fatto sì che alcuni codici stilistici entrassero in noi, magari per poi essere abbandonati con il tempo. Dal giorno zero la missione dei Coma Cose è sempre stata quella di legare un certo modo di scrivere i testi ad una musica libera.  In questo album si sente la new wave che ascoltiamo da anni, ma che non avevamo mai messo in musica prima d’ora. C’è un suono un po’ alla Bristol, per esempio nella prima parte di Odio i motori, dove Francesca fa rap e c’è una chitarrina quasi in levare. Questo è il privilegio che abbiamo dal giorno zero, non siamo schiavi di una forma preconfezionata». 

Nonostante siano pienamente coscienti della loro notevole libertà artistica, mi colpisce sentir pronunciare la parola limiti durante la nostra chiacchierata.   «Abbiamo altri limiti, che è quello del cantare in coppia. La canzone di coppia porta con sé una sensazione un po’ meno intensa. Se non racconti la coppia nello specifico e vuoi essere cantautorale, è ambiguo che due persone abbiano la stessa visione della vita. È un lavoro difficile, di continue stratificazioni e passaggi, però alla fine ci piace passare tantissime ore in studio. Per questo disco abbiamo suonato tutto con la strumentazione analogica, in quattro studi di registrazione diversi. Io e i Mamakass siamo tornati in quella dimensione quotidiana di quando si aveva quindici anni e ci si trovava esclusivamente per suonare anche sette ore». A trainare il disco ci ha pensato il singolo Chiamami, brano in cui le voci di Fausto e Francesca dialogano in un denso botta e risposta sul tema della presenza: esserci l’uno per l’altra, sostenersi, capirsi, farsi ascoltare, ma soprattutto saper ascoltare l’altro. Gli chiedo cosa sia più difficile. «Viviamo in un momento in cui, attraverso i social network, ognuno ha un telefono in mano e può far sentire la sua voce. La gente sembra avere un’opinione su tutto. Tutti vogliono far vedere chi sono. Questo ci porta automaticamente a disabituarci alla comunicazione. Si finisce per affrontare un argomento o un tema come un’attenzione meno profonda, meno duratura. Tutti parlano, ma ben pochi ascoltano».

Un pensiero sintetizzato con grande abilità in uno degli skit che accompagnano lo storytelling dell’album, Rumore sociale. «Non siamo attori (ridono ndr.), però ci siamo divertiti molto a realizzarli. Abbiamo voluto inserire anche una pennellata di ironia nel disco. Nella nostra musica c’è tanta intensità, ma difendiamo sicuramente l’autoironia dal giorno zero. Chi ci segue sui social, sa che siamo dei cazzari e che li usiamo poco perché ci sentiamo in imbarazzo nel farlo». Social o meno, l’essenza dei Coma Cose è rimasta invariata nel tempo. Da Inverno ticinese a Hype Aura, passando per Nostralgia, rimane un senso di profonda soddisfazione per il proprio mestiere e una passione sfrenata per la propria arte. «Personalmente, ho iniziato questo progetto da adulto», mi spiega Fausto. «Avevo trentacinque anni quando sono nati i Coma Cose e se ci pensi, il mio percorso è stato abbastanza anormale. Quando mi sveglio e mi rendo conto che fare musica è il mio lavoro e sto realizzando quello che inseguo da una vita, vivo tutto in modo strano. È la felicità di poter fare questo. Dopo una vita di sacrifici, mille progetti, migliaia di chilometri in auto e notti passate nelle stazioni, adesso mi dico: che figata». Francesca si ritrova nelle parole di Fausto. «Anche io ho fatto mille lavori e mille cose diverse nella vita. Ogni tanto mi fermo a pensare: cavolo, ma faccio veramente musica?».

In Mancarsi, traccia contenuta in Hype Aura, il duo canta “Che schifo avere vent’anni, però quanto è bello avere paura”. Il vero quesito è: questa paura può rimanere anche a trenta o quarant’anni? «Ci ha permesso di cementificare un approccio alla vita che non è quello tradizionale da cantanti. Siamo ancora stupiti di fare questo lavoro, ne siamo orgogliosi e cerchiamo di farlo sempre al meglio, ma abbiamo un pre-vissuto che non puoi cancellare con cinque anni di vita in viaggio, tra dischi e concerti. C’è un vissuto troppo forte, dentro il quale si sono cementificate le nostre paure, insicurezze e fragilità. Laddove ci fosse veramente la paura, non avrebbe più senso portare avanti un progetto di questo tipo».