Carta e penna, nero e bianco. Una pagina tutta da scrivere, quella della vita, come quella delle mancanze. Decidere di lasciare tutto a qualcuno, mettendolo nero su bianco, non significa necessariamente abbandonarlo o, come verrebbe da pensare, morire. Significa, anche, volergli lasciare in dono una parte di noi, un ricordo, un’emozione o un pensiero, che non si possono toccare, ma valgono più di qualunque oggetto materiale. È la sensazione che si prova ascoltando Testamento, tra i brani del nuovo album di gIANMARIA, vincitore della categoria giovani di Sanremo 2023 e in gara, tra poco meno di una settimana, tra i big del Festival della canzone italiana. gIANMARIA con Mostro, il suo nuovo progetto discografico, si mette a nudo, raccontando le insicurezze di un anno difficile, ma allo stesso tempo bellissimo. Un disco da sentire, dall’inizio alla fine, lasciandosi letteralmente travolgere non solo dalle parole e dalle immagini, nitide quanto dolorose a volte, ma anche dalle scelte musicali, dove nessuna traccia è uguale all’altra, ma nulla sembra essere fuori posto.
Io non ho ascoltato Mostro, vorrei che me lo raccontassi facendo in modo che io riesca a immaginarlo.
Il brano parte piano e voce, molto intimo, arrivando ad aprirsi nel ritornello, con una cassa in quattro. Non è un uptempo, ne una ballata, ma un ibrido tra le due cose. Nel ritornello arrivo ad una domanda che faccio, immaginandola e urlando, a mia sorella: “Ma che ti sembro un mostro?/Guarda che sono a posto”. È un brano in cui mi metto a nudo, in un momento di paura, pensando di essere diventato un mostro, anche agli occhi delle persone importanti per me. Una fotografia di un momento di debolezza mio dell’anno scorso.
Hai detto di esserti concentrato molto sulla musica, lasciando da parte gli affetti. Essere individualisti e egoisti, però, non è necessariamente un male.
Io non ho nessun rimpianto per quanto riguarda l’ultimo anno di vita. L’album parla di questo rimorso, sul primo istante. Se non mi fossi dedicato alla musica, però, non saremmo qui a parlare di Sanremo probabilmente. Quest’anno per me è stato forte, anche per il trasferimento a Milano da Vicenza, che mi ha per forza di cose staccato dai miei affetti principali. Per un istante ho avuto paura di aver perso tutto.
Mi sembra che comunque nel disco, anche se non chiedi scusa, cerchi di dimostrare a chi hai messo da parte che sono importanti per te.
Questo è un fraintendimento legittimo, ma non voglio che arrivi questo messaggio. È stato un anno comunque bellissimo e credo sia giusto dedicarsi a qualcosa al cento per cento se ci tieni davvero. Ovviamente, lasciando indietro altre cose altrettanto importanti. Io ho solo esposto le mie preoccupazioni nel momento in cui accadeva tutto.
Nell’album c’è un brano in particolare, Testamento, molto forte. Riascoltandolo ti entra dentro, non è semplice.
È uno degli ultimi brani che ho scritto del disco. Stavo ascoltando Videotape dei Radiohead e volevo scrivere una canzone che mi ricordasse quello a livello emozionale, soffermandomi sul lasciare qualcosa alle altre persone per andare via, non necessariamente morendo, visto che il testamento solitamente fa riferimento a quello. È anche un modo per dire: voi siete le persone più importanti per me. All’inizio avevo l’idea di lasciare delle cose materiali, ma iniziando a scrivere ho pensato fosse più profondo e bello parlare di cose immateriali che ci sono tra me e loro.
Chi sono le persone a cui lasci questo testamento?
Sono quattro, la prima è Anna. Ho avuto tante ragazze che si chiamavano così, anche se la mia relazione più importante non è stata con una Anna, ma ho voluto riassumere così la mia sfera amorosa, tra ragazze passate e future. La seconda è Luce, mia nipote, a cui chiedo di dire a sua madre, cioè mia sorella, di sorridere. Poi ci sono mio padre e la mia migliore amica, Matilde. Loro nel ritornello mi chiedono come si sta fuori, di casa e città, e io li illudo che sia tutto bellissimo, ma la verità è che mi pesa veramente molto non averle accanto, fisicamente almeno.
In un’altra occasione mi avevi raccontato che per quanto tu scriva in un certo modo per la musica ti viene difficile esternare le cose parlando. Questa cosa è cambiata?
Sì, parlo sempre di più con le persone. Soprattutto, di una cosa che per me era difficilissimo spiegare, cioè la mia parte artistica e creativa. Devo farla questa cosa, ed è giusto che impari a parlare, non solo a scrivere e cantare. Sono cresciuto anche in questo, e fa sicuramente parte dell’essere artista.
Il disco ha un’ottima produzione, c’è un lavoro importante dietro.
Io ho un rapporto molto speciale, anche a livello lavorativo, con i miei produttori, che sono Gianmarco Manilardi, Bias e Antonio Filippelli, che è anche direttore artistico del progetto. Quando ci mettiamo a scrivere ci troviamo così in sintonia che possiamo fare tantissime cose diverse, incontrandoci sempre. Lavoriamo a tutto tondo su tutto, abbiamo ascoltato tantissima musica e da quando abbiamo chiuso Fallirò (il suo primo EP, ndr.) ho sempre detto che mi piace fare forme canzoni italiane, scritture classiche di brani italiani, ma con un suono estero, che è quello che cerchiamo di fare.
E si sente che avete cercato di spaziare, senza limitarvi a qualcosa di semplice. A proposito di Fallirò, in passato mi hai detto che il fallimento fa bene, perché aiuta a riflettere. Alla soglia di Sanremo, hai paura di fallire?
Certo, ma è la stessa che avevo prima. Avremo sempre degli obiettivi e ci sarà sempre la possibilità di non raggiungerli. Nello scorso disco dicevo che il fallimento per me non riguarda il non raggiungere gli obiettivi, non vendere, andare male con un progetto o non avere follower su Instagram, ma l’accontentarsi, smettendo di lavorare. Guardando al futuro so che non succederà. Magari mi metterò a fare altro, ma al momento non ho paura di fallire.
Tornando all’album, un brano come Popolare ha diversi livelli di interpretazione. Qual è quello che gli hai dato tu?
A disco finito, anche se questo era il primo brano che ho scritto, ho pensato che in questa canzone mi illudo nel fatto di trovare conforto nel riuscire a parlare a più persone possibili e che queste persone si sentano, in senso metaforico, abbracciate da me, protette, ma che loro non mi proteggano. Io do tutto agli altri, anche se a me non ritorna niente, e penso che questa cosa mi appagherà, ma in realtà non credo sia veramente così, è un illusione. Parlo del trovare un linguaggio universale, il fattore Vasco, ovvero parlare a più persone possibile.