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Gli Inhaler sono molto più che «la band del figlio di Bono degli U2»

Con “Cuts & Bruises” gli Inhaler si giocano tutto, ma alle loro condizioni. «”Get Back” ci ha aiutato a capire la direzione»

Quando incontro gli Inhaler (sì, la band del figlio di Bono degli U2, ma loro sono molto più di questo), mi rendo conto di essere di fronte ad uno dei gruppi rock più interessanti degli ultimi anni. Seduti dall’altra parte della tavolata in un hotel nel centro di Milano, Elijah Hewson e Ryan MacMahon mi raccontano il loro ritorno. I nostri destini si incrociano infatti ad un mese dall’uscita del loro secondo album di inediti, Cuts & Bruises, un progetto che segue l’onda del successo del predecessore It Won’t Always Be Like This, grazie al quale la band ha conquistato il vertice delle classifiche in Regno Unito e Irlanda. Dopo l’uscita dei singoli These Are The Days e Love Will Get You There, gli Inhaler si preparano ad alzare l’asticella. Gli chiedo subito come sia stato mettere le mani in pasta per dare vita a questo album. «Il secondo album è sempre la prova più tosta e difficile, specialmente perché tutte le persone con cui lavori e che ti circondano continuano a ricordatelo. Ci sono tante pressioni esterne. Se It Won’t Always Be Like This ha avuto una gestazione più lunga, Cuts & Bruises ha preso vita con una maggiore velocità e naturalezza. Pensiamo che il poco tempo a nostra disposizione ci abbia aiutato a trovare la giusta motivazione e rilasciare musica sempre più di qualità».

Se nel disco c’è spazio per sonorità a cavallo tra il pop e il rock, in cui ogni strumento è perfettamente bilanciato e interamente al servizio della band, non trovano però spazio i riferimenti all’Irlanda, fatta eccezione per la traccia Dublin In Ecstasy, dove la voce di Elijah canta: “I can see the city in the glass of your eye/And when you take your shot/I’ll be there this time/Dublin in ecstasy”. Me lo confermano anche loro, rimarcando il fatto che Cuts & Bruises sia intrinsecamente ottimista e che parli soprattutto di amore in tutte le sue molteplici accezioni. Basti pensare alla travolgente delicatezza di If You’re Gonna Break My Heart o alla più romantica Valentine. «La prima è probabilmente la storia migliore che abbiamo avuto modo di raccontare, nata durante il nostro viaggio on the road per la campagna americana. Valentine, invece, è il brano che abbiamo scritto in meno tempo». Ancora una volta la produzione è a cura di Anthony Genn (Pulp, Elastica, Mescaleros) che li ha fatti registrare all’interno di un vecchio convento dublinese. «Ant (Anthony Genn ndr.) ci ha fatto rigare dritti, mettendoci anche sotto pressione. Abbiamo cercato di lasciar respirare la musica, concentrandoci molto di più sui significati delle nostre canzoni, piuttosto che sui suoni da proporre. Siamo innamorati del pop e ci siamo davvero divertiti a tornare alle origini degli Inahler, cercando di proporre qualcosa che non fosse necessariamente fin troppo strutturato».

«Quando abbiamo iniziato a lavorare ai pezzi dell’album, avevamo visto recentemente Get Back (la serie di Peter Jackson sui Beatles ndr.) e ci ha sicuramente spronato e aiutato nel capire che direzione volessimo intraprendere come band», dicono. I tagli e le ferite a cui fanno riferimento nel disco nascono proprio da questa convivenza fisica, svincolata dalla tecnologia e dalla distanza forzata. «Ci siamo resi conto che essere in un gruppo è proprio come come essere in un matrimonio. I momenti dolorosi, che poi sono quelli ti rimangono addosso, e i momenti di divertimento e spensieratezza si alternano. Alcune cicatrici rimangono dopo le ferite, ma proprio come se fossero i segni del tempo che passa». Gli chiedo cosa pensino della musica italiana. Ci pensano un attimo. Ma una volta nominati i Måneskin, i dubbi di Elijah e Ryan spariscono. «Sono le più grandi rockstar del momento, no? Non li abbiamo mai conosciuti di persona, ma li rispettiamo, perché portare il rock & roll sul palco è sempre un grande spettacolo e loro lo stanno facendo molto bene. Hanno la musica giusta, un perfetto look glam-rock, sono veramente cool e poi ci fanno pensare ai T.Rex e ai Rolling Stones».

Le influenze degli Inhaler vanno invece collocate più precisamente a Manchester, dove la scena musicale traboccava di talenti tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta: «Quando abbiamo iniziato questa avventura ne ascoltavamo tantissime: Joy Division, Stone Roses, Happy Mondays, Smiths. Ora ascoltiamo di tutto e la nostra produzione artistica è il risultato di una fusione di idee che si avvicinano di più al sound dei Kings of Leon, Fontaines D.C. e Strokes». Tra pochi mesi sarà anche tempo di live e la band di Dublino toccherà anche l’Italia per ben tre date. «L’ultima volta che siamo venuti ci eravamo trovati benissimo, appena torneremo a casa inizieremo a fare le prime prove, però possiamo dirti che ci stiamo ancora lavorando, sul palcoscenico vogliamo portare qualcosa di speciale». Le aspettative sono alte, indipendentemente dalla nomea che Elijah si porta dietro e che a volte può risultare un po’ ingombrante. Tuttavia, è bene fare una precisazione: essere “figli di” non significa avere necessariamente tutte le porte aperte, anzi, spesso si deve faticare il doppio o il triplo per garantirsi una credibilità personale ed artistica nell’industria musicale. Gli Inhaler vogliono giocare questa partita, ma alle loro condizioni.