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Yungblud è un freak dei nostri tempi che se ne fotte di omologarsi

Il live di Yungblud al Forum è stato un pugno dritto nello stomaco, un inno alla libertà d’espressione, un grido necessario e imperativo.

Negli anni Settanta, un giovane che traduceva la ribellione contro i modelli comuni di comportamento in atteggiamenti anticonvenzionali veniva definito un freak. Yungblud ne sa qualcosa, ma soprattutto ne è diventato il portavoce indiscusso. La sua è una storia che merita di essere raccontata e che può tracciare le sue origini nelle zone rurali dello Yorkshire. Nato e cresciuto in una famiglia di musicisti, influenzato da Bob Dylan, Beatles e Clash, fin dal suo debutto ha dimostrato di saper coniugare stili narrativi e generi musicali ben diversi tra di loro, attestando la sua natura camaleontica. Durante il live al Forum di Milano – dove riscopro la bellezza del pogo come non succedeva da anni – la matrice rock dei suoi pezzi è sicuramente predominante, ma c’è tanto spazio anche per le incursioni più punk, pop, alternative e hip-hop. Yungblud non si può incasellare, definire o etichettare ed è forse proprio per questo che piace ad un pubblico molto vasto. Sa rivolgersi alla sua generazione, facendosene portavoce, e invitando il suo pubblico a rispettare due regole fondamentali della sua costituzione artistica. «Durante i miei show, voglio che tutti i presenti vengano trattati con amore e fottuto rispetto. Prendetevi cura l’uno dell’altro», urla agli undici mila del Forum.

Poi c’è la salute mentale, un altro tema centrale nella vita e nel percorso professionale del cantautore britannico, che in passato ha fronteggiato demoni importanti: dagli attacchi d’ansia al bullismo, passando per la depressione e i tentativi di suicidio. In un’intervista per NME, aveva dichiarato: «Se conoscete Yungblud, la musica è secondaria. Non me ne frega un cazzo dei dischi di successo. Mi interessa solo una cultura, come quella degli Stone Roses o dei Green Day, in cui io salgo sul palco e ci riuniamo perché siamo parte integrante delle vite degli altri. È di questo che si tratta, di entrare in contatto con le persone. Se non lo faccio, muoio. Se non lo faccio, torno a volermi uccidere. So che è una cazzata, che tutti noi abbiamo questa co-dipendenza, ma è così. Io sono come loro, così come loro sono come me». Lo ribadisce con convinzione anche attraverso uno dei visual che accompagnano il racconto del concerto – che inizia con 21st Century Liability e termina con Loser, nel mezzo tutti i suoi più grandi successi e una cover di Machine Gun Kelly. La centralità del saper chiedere aiuto, tendere una mano al prossimo e trovare la forza di reagire con la consapevolezza di non essere mai veramente soli, è il cuore pulsante di tutto quello che il musicista di Doncaster scrive, compone e produce. È la materia di cui sono fatti i suoi stessi incubi, parafrasando e ribaltando al tempo stesso Shakespeare. Al contempo, forse è qualcosa di molto più grande e complesso da descrivere a parole, perché abbraccia intere legioni di fan che si rispecchiano in lui, nel suo modo di essere, vivere e comunicare.

Yungblud non è la popstar convenzionale con cui siamo soliti interfacciarci. Con un piglio da ribelle che nasconde un cuore enorme e un animo altrettanto sensibile e delicato, che ha scelto la musica come mezzo di confessione dei suoi lati meno piacevoli, più ruvidi e duri da digerire. Chi ascolta musica nel 2023, è stanco di percepire un artista come un contenitore di argomentazioni e sonorità trite e ritrite. Oggi si cerca quel quid che attesti un cambiamento nei dogmi dell’industria musicale contemporanea e Dominic Harrison – questo il suo vero nome – sembra proprio essere riuscito a scardinarli tutti. I brani che porta sul palco sono terapeutici, un pugno dritto nello stomaco, un inno alla libertà d’espressione, un grido necessario e imperativo che riecheggia tra le pareti del Forum come se tutto stesse implodendo da un momento all’altro. Tra i tre mila del parterre del Forum c’è qualcuno che lo definisce il nuovo profeta della musica. E quel qualcuno forse non ha tutti i torti. D’altronde ciò che rimane una volta chiuso il sipario è un messaggio profondamente simbolico. Un incoraggiamento sincero verso gli outcast della società, gli incompresi e gli emarginati. Gli stessi fleabag di cui parla in una delle sue canzoni.