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Il viaggio personale di Fasma

Fasma ha messo tutto sé stesso nel suo nuovo album, un percorso a tinte urban, rock e profondamente dark.

Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”, recita Dante Alighieri nel ventiseiesimo canto dell’Inferno. Una frase che sicuramente ci ammonisce e ci invita a fare tesoro del nostro intelletto per seguire la strada della virtù. Cos’hanno profanamente in comune il Sommo Poeta e Fasma? Sicuramente la necessità di intraprendere un viaggio che dal buio li porti verso la luce. Dante ha scritto delle vere e proprie cantiche, Fasma invece ha messo tutto sé stesso nel suo nuovo album di inediti, Ho conosciuto la mia ombra!, un percorso a tinte urban, rock e profondamente dark. Un progetto a più mani, essendo stato realizzato con l’aiuto della crew WFK. Un chiaro invito a guardarsi dentro, perché la conoscenza e il sapere – anche di sé stessi – vanno necessariamente coltivati e questa operazione non può essere messa in atto in un tempo ristretto. «Sono stati tre anni pieni di vissuto», mi racconta quando lo incontro nella sua etichetta discografica. «Magari un giorno della mia vita lo racconterò (ride ndr.) Per fortuna, ho sempre avuto una vita piena di bivi ed è stato proprio uno di loro che mi ha portato a fare musica. Mi sono preso tre anni per lavorare al nuovo disco perché non riesco ad essere falso. È stato un mio grande limite per tanto tempo, ma a lungo termine sento che mi porterà dove voglio arrivare».

«Per poter pesare ogni parola, bisogna dare valore al silenzio. Ho conosciuto la mia ombra! il frutto di una nuova esperienza, in cui ho scavato a fondo dentro me stesso perché potesse farlo successivamente anche qualcun altro. Noi facciamo musica per esigenza, mica per tutto quello che la circonda. Quando scrivere una canzone o andare in studio diventa una questione lavorativa, allora sento di non volerlo più fare (ride ndr.). Ho dovuto aspettare il momento giusto per esprimere al cento per cento questo nuovo lato di me, ma dopo due anni di lavoro siamo qui». Gli chiedo quali libertà personali e artistiche sente di essersi preso con questo lavoro. «Mi sono sentito esageratamente libero: dalla scelta di fare un concept album a tutte le singole scelte strumentali del mio producer, GG, passando per le sfumature rock ed elettroniche del disco. Non ci sono strutture musicali giuste o sbagliate. Anche i singoli che lo hanno anticipato sono stati scelti per esprimere al meglio a livello artistico il significato dell’album. Volevo che riassumessero un viaggio. Non sono mai state scelte indottrinate da un sistema o dal mercato, ma puramente artistiche. Ho conosciuto la mia ombra! mi ha insegnato a non aver paura di queste scelte, di niente o di nessuno e sicuramente esprime a trecentosessanta gradi la volontà di dire che è questa è la nostra idea di musica e disco, al di là di quello che la gente poi penserà». Mi ricollego ad un manifesto di cui ci aveva parlato già tre anni fa. Una dichiarazione di indipendenza volta a tutelare il rapporto tra arte, artisti e terzi mediante quattordici articoli. Nell’ultimo articolo in chiusura al testo, Fasma dichiarava: “Io non esisto se non ci sei te che mi pensi, quindi resterò qui nel tuo cervello e quando vorrai sarò pronto per uscire, germogliare, crescere, comunicare”. Gli domando se crede di esserci riuscito pienamente con questo progetto. «Per quanto riguarda la pienezza, credo che non mi sentirò mai così. Per fortuna, in realtà. Nel momento in cui lanci un pensiero a qualcuno, lo metti in dubbio. Questo crea un confronto e di conseguenza verità. L’ho messo a disposizione degli altri e gli sto dando la possibilità di evolversi. Mi sento ancora ai blocchi di partenza, all’inizio». In F.B.F.M. (acronimo di Fare bene fare male), uno dei pezzi scelti per presentare l’album al pubblico, canta che “in fondo anche un film romantico può diventare un film dell’orrore”. Avendo sempre riposto una cura e un’attenzione esemplare anche in tutti gli aspetti visual e grafici della sua musica, mi racconta le diverse influenze cinematografiche che lo hanno accompagnato nell’arco di questi due anni. «Voglio usare il plurale. Lo abbiamo curato. Anche Tommy e Lollo dicono la loro con il massimo rispetto per il concetto di diversità autentica che volevamo portare sul palco. Ci ha ispirato veramente la qualunque. Abbiamo ripreso i film horror degli anni Settanta e Ottanta, film come Profondo Rosso, The Elephant Man».

Cosa sente di aver perso? «Tantissime cose e persone in primis. La musica e la disponibilità che le persone mi hanno dato nel capirci e comprenderci, vanno prese come una responsabilità. Ciò mi ha portato a sacrificare delle cose per un fine più grande: esprimere alle persone quello che volevo dire. Se coltivo questo, perdo tanto altro, ma poter perdere le persone che pendono dalle tue labbra e aspettano una tua frase per essere aiutate farebbe più male. Magari con una tua frase aiuti dieci persone e facendo un’altra cosa aiuti solo te stesso. A volte preferisci aiutare gli altri, piuttosto che te stesso. Come artisti, nello specifico, noi sacrifichiamo determinate emozioni per far sì che le persone non commettano i nostri stessi errori». Parlando di perdite, non si può fare a meno di parlare della traccia che chiude l’album, Soli. «Penso che sia la fortuna più grande e altre volte la condanna peggiore che tu possa ricevere. C’è quella fisica e quella mentale. La solitudine sicuramente è necessaria ad un certo punto della propria vita. Non so in quale momento preciso, sta alle altre persone capirlo, ma chiaramente ognuno di noi deve saperlo affrontare. Un altro brano di punta del disco è Lilly, che esplode in un meraviglioso assolo di chitarra graffiante al punto giusto e che racconta la fragilità che si trasforma in un punto di forza in questo percorso al fianco della propria ombra. Stiamo parlando di un tema che viene ancora fin troppo visto come un tabù, specialmente nel genere maschile. «La fragilità per definizione social è qualcosa che ti limita», dice. «Non la vedo così. Quando la incontri, incontri di conseguenza la tua sensibilità e impari a stare al mondo. Perché la riteniamo un tabù? Sicuramente perché è difficile immedesimarsi negli altri ed è faticoso. Più che difficile, ecco, è veramente faticoso. Cerchiamo di evitare la fatica fisica in ogni modo: ordiniamo cibo d’asporto, incontriamo le persone online, se vogliamo viaggiare ci basta prendere un aereo e in otto ore siamo a New York dall’altra parte del mondo. Più progrediamo, più pensiamo che sia più facile fare meno fatica, fare tutto da casa. Se leviamo la fatica fisica, rimane la fatica mentale dove non sudi esteriormente. I cambiamenti non li vedi guardandoti allo specchio, ma affrontando tante situazioni, faticare è importante».