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Ho visto Travis Scott agli I-Days fregarsene delle aspettative

Agli I-Days l’iconicità di Travis Scott ha eclissato persino le pecche dell’esibizione in sé per sé. Ma forse va bene così.

Quello che si è consumato ieri sera agli I-Days, era senza ombra di dubbio uno degli show più attesi dell’anno. Lo dimostravano la velocità con cui il concerto era andato sold out poche ore dopo l’annuncio, la scelta di una location inusuale e capientissima – si è trattato del concerto più popolato di tutto il tour europeo di Travis – e il fermento generale, palpabile fin dalle primissime ore del mattino intorno all’ippodromo milanese. La pioggia, che ogni agenzia meteo prevedeva esserci su Milano, c’è stata ed è caduta incessante per ore: niente ha però potuto contro gli 80mila corpi pieni di entusiasmo, zuppi di adrenalina e incuranti del terreno infradiciato che hanno sfidato il lungo temporale, molti dei quali a petto nudo. Insomma, alla sua prima esperienza italiana, l’eroe di Astroworld, non avrebbe potuto chiedere di più. «È stato uno dei concerti più belli della mia vita», dice a tal proposito, sul finire dello show, il trapper al microfono.

Il suo pubblico è felicissimo di trovarsi lì. Ha atteso questa serata per oltre otto mesi. Si compone di giovanissimi (spesso accompagnati) che però non prevalgono in maniera dominante, a dimostrazione che l’evento must-see della stagione milanese trascende di gran lunga il concetto di generazione. Si salta tutti assieme, abbracciandosi e ricreando mosh pit su mosh pit, con l’entusiasmo sotto palco che spesso trascende, paradossalmente, le canzoni, sovrastando la show. Tutti riprendono il palco – anche quando lontanissimo – con il telefono in mano. Molti però, a dimostrare dal silenzio che cala su alcune tracce, soprattutto nella piattissima parte centrale del concerto, non sono esattamente cultori dell’artista. O meglio, non della sua musica. Ma d’altronde la figura che l’artista di Houston si è creato, minuziosamente, negli anni, riguarda un fenomeno di massa, estetico, culturale, economico-imprenditoriale.

Ed è questa l’icona che si erige, scavalcandole, anche sulle pecche dell’esibizione in sé per sé: autotune a tratti esagerata, poco cantato e in particolare pochissimo rap, scenografia inesistente – no, le fiamme e il fumo sul palco, non sono passabili come scenografia. E poi il volume troppo basso, che impedisce al suono di propagarsi al meglio in tutte le aree del concerto e una scaletta costruita come un’auto di Formula Uno, che deve dare tutto in poco (forse pochissimo) tempo – ventiquattro i brani, in un’ora, scarsa, di concerto. Ma forse va bene così, forse ad essere squilibrate erano le aspettative di qualcuno dei presenti. Non è la musica la vera luce a fare da guida, bensì la presenza ipnotica di Travis. Pare un ossimoro per i cultori dei concerti, un’esperienza vitale e difficilmente dimenticabile per tutti gli altri. Un corpo in continuo movimento che sprigiona energia e che a sua volta ne fa muovere altri 80mila davanti a sé. Straripante e contagioso.