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Arctic Monkeys a Roma, foto di Valeria Magri

Gli Arctic Monkeys sono diventati tutto ciò che hanno sempre odiato

Nonostante ciò, lo show è estremamente coerente al loro nuovo corso, che rende Alex Turner un Ulisse moderno, ma senza alcuna intenzione di ritornare ad Itaca

Ci sono band che non riescono a superare la prova del tempo, che non riescono a fare il cosiddetto salto di qualità e magari finiscono per deludere le aspettative dei loro fan, macchiando l’aura effimera e patinata che da sempre li aveva contraddistinti. E poi ci sono gli Arctic Monkeys. A rincarare la dose sembrerebbe averci pensato persino un mito indiscusso come Damon Albarn, spingendosi a definirli «l’ultima grande band di chitarristi» nella storia della musica contemporanea. Con la bellezza di vent’anni di carriera sulle spalle e cinque album alla numero uno delle classifiche inglesi, la band originaria di Sheffield ha raggiunto uno status leggendario trovando la chiave di lettura per liberare un pubblico imprigionato nel pop da classifica, grazie all’indiscutibile talento per la scrittura e alla sfacciataggine che Alex Turner ha sempre saputo evocare fin dall’uscita di Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not.

Arctic Monkeys a Roma, foto di Valeria Magri

Eppure gli Arctic Monkeys hanno raggiunto l’apice del loro status di guitar band – sempre per citare Albarn – con AM. Un lavoro che ha li ha visti orientarsi su un sound ancora più rock nel senso più puro e scolastico del termine, rilasciando alcuni dei brani che ancora oggi fanno parte dell’immaginario collettivo e che sono stati innegabilmente la soundtrack della nostra adolescenza, quando ci spostavamo tra i banchi di scuola con la voglia di mangiarci il mondo ed evadere dalla noia della routine. Ed è proprio con questo spirito che tanti sono arrivati agli I-Days per vedere la band di Turner. Poco importa che all’ippodromo milanese non fossero presenti esclusivamente i fan della prima ora, ma anche tanti centennials che potrebbero essere nate proprio negli anni in cui gli Arctic distribuivano la loro musica su MySpace.

Arctic Monkeys a Roma, foto di Valeria Magri

Turner non si perde in giri di parole o discorsi edulcoranti, ma ringrazia semplicemente il pubblico manifestando ancora una volta il suo carisma e la sua natura da animale da palcoscenico. La scaletta è in perfetto equilibrio tra passato e presente, ricordandoci che non si può essere sempre eternamente giovani e che anche Turner deve fare i conti con il tempo che passa. C’è spazio per i pezzi più coinvolgenti (Snap Out Of It, le scatenatissime Teddy Picker e Fluorescent Adolescent), gli evergreen (Why’d You Only Call Me When You’re High?, Arabella) e le hit indiscusse (R U Mine?, I Wanna Be Yours). Quando subentrano le parentesi più soft condite di art-rock e baroque-pop, da There’d Better Be A Mirrorball a Scalptures of Anything Goes passando per Body Paint, ci si rende conto che i quattro musicisti siano diventati tutto quello che non avrebbero mai voluto essere. I tempi di Humbug, Favourite Worst Nighmare e dell’ormai (quasi) dimenticato Suck It And See – praticamente assente in scaletta – sono distanti e dai contorni sfuocati.

Arctic Monkeys a Roma, foto di Valeria Magri
Arctic Monkeys a Roma, foto di Valeria Magri

Nonostante le chitarre graffianti e il mood grunge che avevano contraddistinto la prima fase della carriera, con Tranquillity Base Hotel & Casino, ma soprattutto con il più recente The Car, la band è riuscita a manifestare la piena espressione della sua maturità attraverso un progetto finemente realizzato, con testi alquanto poetici ed evocativi, un’atmosfera profondamente cinematografica e sognante. Poco importa che la critica e gli stessi fan siano stati intiepiditi da questo cambiamento di rotta. Lo show che il gruppo inglese mette in piedi è estremamente coerente con i nuovi Arctic Monkeys: un esercizio di stile, di dedizione e di volontà nel rimanere saldamente ancorati alla propria comfort zone, pur sperimentando, ricercando e non smettendo mai di cercare di superarsi. Alex è il nostro Ulisse moderno, ma senza alcuna intenzione di ritornare ad Itaca.