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Gli Imagine Dragons vogliono piacere a tutti i costi, e ci riescono 

Gli Imagine Dragons tornano in Italia con uno show piacione costellato di soli brani iconici. Ma d’altronde chi è lì, sotto il palco, vuole esattamente quello: le hit, nient’altro che le hit!

La traiettoria delineata dagli Imagine Dragons dal 2008 ad oggi è quasi impeccabile. Cinque dischi in studio, oltre settantacinque milioni di album venduti in tutto il mondo, otto singoli che superano il miliardo (si: M-I-L-I-A-R-D-O) di streams su Spotify e una fama che gli permette di riempire, nella settimana dell’esodo estivo, il Circo Massimo di Roma per una notte con 70mila spettatori (da segnalare: mai nessuno quest’anno era riuscito a portare tanto pubblico in questa venue). E lo fanno con uno show piacione, nel senso che vuole piacere a tutti costi, con Mercury che fa solamente da prestanome al tour – delle trentadue canzone che compongono il progetto diviso in due atti sul palco la band si limita a portane sei. Quello che resta è un susseguirsi di brani enormi con Believer e Thunder che arrivano subito nella prima parte.

Più che una scaletta, sembra un greatest hits generato da un algoritmo (della serie: “Alexa, riproduci i maggiori successi degli Imagine Dragons”). Ma d’altronde chi è lì, sotto il palco e sulle collinette laterali dell’arena romana, vuole esattamente quello: le hit, nient’altro che le hit! Gli Imagine Dragons entrano sul palco con un brano dell’ultimo disco, My Life, e da quel momento in poi è Dan Reynolds-show: un po’ Big Jim, un po’ Al Pacino in Ogni maledetta domenica, spara perle motivazionali incoraggiando a «vivere ogni vostro giorno come se fosse l’ultimo», si emoziona cantando live per la prima volta in assoluto Waves – un fuoriprogramma dedicato «a due miei amici che non ci sono più» – e accetta dei calzini in regalo da una fan. Dal momento acustico suonato sul b-stage al centro del palco e composto da Next to Me, I Bet My Life e la già citata Waves, si passa all’ultima parte dello show che è il vero top of the pops con pezzi del calibro di Whatever It Takes, Enemy, Bad Liaer, On Top of the World, Radioactive e Demons che vede Daniel Wayne al piano. «È emozionante essere qui, in questo posto». E noi ci crediamo.

Lo show funziona, è innegabile, e i brani, messi uno dietro l’altro, creano quell’effetto karaoke che alla fine, è sempre la scelta vincente. Ma la vera forza dello show è la capacità della band di Las Vegas di connettersi con il pubblico, tramite le canzoni, ma anche tramite i valori e i messaggi che portano sul palco – «Puoi fare tutto quello che ti metti in testa, non farti dire da nessuno il contrario», dice Reynolds. Poi, a metà concerto, aggiunge: «Celebriamo la bellezza di essere qui, insieme». Walking the Wire è il gran finale con i fuochi d’artificio (sì, scontati, ma sempre ad effetto) sparati ad illuminare i 70mila del Circo Massimo e un ultimo verso che è un po’ la sintesi perfetta dello show e in generale della loro ascesa nell’Olimpo dei grandi del pop. “We couldn’t be higher, up/We’re walking the wire, wire, wire”