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24 ore con Nitro

Nitro si racconta come non l’aveva mai fatto prima in questa lunga intervista che si è trasformata in un tirare le somme

«Stasera a Milano gioco in casa e sono passati degli amici a trovarmi (spoiler: Ernia, Lazza, Sally Cruz, Fresh Mula, Il Ghost, Gemitaiz). Rispetto alle precedenti date, dove tutto il peso dello show gravava su di me, è più semplice», mi dice Nitro a pochi minuti dall’inizio del live ai Magazzini Generali. Nonostante qualche linea di febbre, sembra non risentirne minimamente, anzi. La serata è un continuo crescendo, uno spettacolo in cui rap e rock si mischiati, unendo le due anime dell’artista vicentino: la prima che emerge dalla sua voce roca, la seconda dalla bravissima band che lo accompagna. È un ripercorrere una carriera lunga ormai dieci anni, tanti ne sono passati dall’esordio di Danger, e di cose ne sono successe tante. L’ingresso in Machete, l’amicizia con Slait (presente in balconata), i successi di Suicidol e l’apprezzatissimo ultimo disco, Outsider. La lunga chiacchierata che segue è un tirare le somme di una lunga carriera, da cui però Nitro aspetta ancora l’apice.

Come hai strutturato questo show rispetto al passato?
È diviso in più momenti, una parte molto crossover, un’altra parte puramente rap, back to the roots, e poi di nuovo crossover: un gran finale con DJ e band tutti assieme. Si parte dall’inizio e si arriva alla fine: c’è praticamente, almeno, un pezzo di ogni disco.

È stato complesso scegliere i brani?
Per la prima volta in dieci anni è stato davvero complesso, iniziano ad esserci tante cose, ogni cosa che tolgo mi dispiace un po’, perché mi piace farla. Ci siamo anche inventati questa trovata, di chiedere alle persone di scegliere due pezzi fuori scaletta ogni data, provandole il giorno stesso ed eseguendole la sera per loro.

Qual è il più richiesto?
Margot resta sempre la più gettonata e mi fa molto piacere, anche se mi ero stancato di farla. Ma vedere tutto questo entusiasmo quando la porto live mi fa capire che, in fondo, è giusto così.

Outsider ha ormai parecchi mesi di vita, sei soddisfatto di come è stato recepito?
Come partenza non sono mai soddisfatto, in più non parlo mai dei miei dischi prima di un paio d’anni. Ho notato, nel corso della mia carriera, che i miei dischi hanno bisogno di un po’ più tempo rispetto agli altri per ingranare. Per esempio, quando uscì Suicidol non se ne parlava come accade ora: è servito tempo, un tour, coinvolgimento per far capire alle persone il mio ambiente, la mia allure artistica. 
Sono soddisfatto della musica che ho fatto, quello sì, tantissimo. Alcune frasi dei testi di Outsider le vedo proprio come un grande statement che varrà per tutta la mia vita. Quando faccio musica che riesce a soffermarsi in una sensazione e non in un tempo determinato ho raggiunto l’obiettivo, perché difficilmente invecchia, una canzone fatta così.

Che è poi l’esempio perfetto di ciò che è accaduto col tuo disco precedente, GarbAge, uscito in piena pandemia, ma che poi è stato riscoperto più tardi.
Sono abbastanza contento perché, con l’uscita della deluxe, avendolo portato live, anche GarbAge è riuscito ad avere la sua vita. Logico che, se potessi tornare indietro, cercherei di dargli più spazio ed aspetterei. Ma magari, se avessi aspettato, non sarebbe stato lo stesso disco perché avrei cambiato tutto… Questo purtroppo è il brutto di fare musica con quello che senti e non con quello che devi fare. 
Magari avrebbe avuto un altro titolo, un’altra ambientazione, ed invece è GarbAge proprio perché è figlio di quel periodo lì.

Rispetto a GarbAge invece è cambiato qualcosa nel processo di scrittura di Outsider?
Me la son vissuta molto meglio del solito. La pandemia, lo stare da solo tanto tempo: tutto ciò mi ha permesso di scrivere molto, sono arrivato in studio che avevo già materiale per due dischi. Da lì ho iniziato a decostruire, a cercare nuove soluzioni… 
L’essere entrato nei trenta in lockdown, l’aver scavallato questa fatidica cifra, ed anche l’essere praticamente rimasto immobile dai ventisette ai trenta anni mi ha messo pressione, mi ha dato una spinta enorme a livello lavorativo ed umano. Cerco ogni giorno di fare qualcosa, non vado a letto felice se ogni giorno non faccio, o almeno provo a fare, qualcosa di nuovo. Che siano imput, o leggere un libro, guardare un film, studiare dischi di altri… Non conta dove sei arrivato, quanto presto hai iniziato: comunque i trenta ti daranno una svegliata, qualsiasi cosa tu stia facendo. Il successo? Sì, ma è successo. Adesso che faccio? Non posso star qui a guardare il me di vent’anni nei poster, devo fare qualcos’altro.

Nel 2023 cosa significa essere «innamorato del rap»?
Significa saper sempre scindere quali sono gli artisti e quali sono i prodotti secondo me. Ma anche, in tutta sincerità, non guardare quanti ascolti ha un disco prima di giudicarlo. È una musica in cui, non troppi anni fa, si faceva a gara a chi vendeva di meno. “Loro sono i migliori perché non sono dei venduti”, si diceva. Adesso c’è l’opposto: se vendi sei giustificato, anche se fai musica di merda. Questa roba qui non ha minimamente senso, un ascoltatore di rap dovrebbe in primis ascoltare il messaggio che comunica l’artista, ma pure il suono, il flow, le rime. 
Uno potrebbe anche dirmi che ascolta il rap per ridere perché per il resto la vita fa schifo.

E cosa gli risponderesti?
Gli farei i complimenti. Ha capito a pieno cosa vuole dalla cultura e ne sta fruendo. Ma le persone che giustificano i loro gusti musicali con le classifiche, con le vendite… Sembra che non vi fidiate abbastanza del vostro udito, che dobbiate riportare dei dati statistici perché manco voi vi fidate dei vostri gusti. So benissimo che alcuni dei miei artisti preferiti non se li caga nessuno, ma ciò non li rende meno valorosi ai miei occhi. Il fatto che loro continuino a far musica, nonostante non abbiano i risultati che per me si meritino, mi fa capire quanto sono guerrieri.

Sembriamo catapultati in una puntata del primo Black Mirror, dove tutti siamo uniformati negli stessi canoni.
Perché c’è un algoritmo che pensa per te. Il confine ormai è sempre più sottile, possiamo paragonare Spotify alla biblioteca di Alessandria e tu guardassi solo i libri in vetrina, senza manco cercare la categoria che ti interessa capito? Semplicemente ti fermi a quello che c’è in vetrina.

A proposito, quali dischi ti ha influenzato nell’ultimo periodo?
In primis The Forever Story di JID; il primo album dei System of a Down, che quest’anno è tornato pesantemente in auge nei miei ascolti. Too Good To Be True e Welcome 2 Collegrove, i due joint album, uno di Meek Mill e Rick Ross, l’altro di 2 Chainz e Lil Wayne. Ma ascolto una valanga di dischi, dovremmo aprire un capitolo a parte. Anche Ab-Soul, con Do What Thou Wilt, ha fatto un disco stranissimo, particolare, pieno di cambi: ecco, quel disco ha fortemente influenzato GarbAge, con gli intro diversi, i cambi di beat continui. Mi aveva proprio fleshato, una sensazione di libertà incredibile.

Beat switchati che troviamo anche in Outsider, con atmosfere più rock rispetto al disco precedente.
Sì, diciamo che GarbAge è follia, estro, totale libertà di fare quello che ci passava per la testa, chissenefrega se non piacerà a nessuno. Outsider è più “cerchiamo di fare tutte cose che possano entrare bene nella testa, ma che abbiano anche il background folle del disco precedente”. Anche io, che voglio sempre fare cose diverse, direi che con GarbAge il mio super disco sperimentale me lo sono giocato, poi se voglio fare una roba di un altro genere è un altro discorso, ma il disco rap sperimentale multigenere l’ho già fatto. Avevo anche bisogno di ritrovare me, quel disco arrivava da un periodo comunque entusiasmante, Outsider arriva invece da tre anni di merda.

Anche per questo hai virato su un tappeto sonoro più cupo ed incazzato?
Bisognava scurire tutto perché il mio periodo è nero e deve rispecchiare me, altrimenti non sarei stato io.

In Outsider hai dato spazio ad artisti meno noti, ma che nel contesto del disco hanno fatto un figurone, senza seguire le logiche di mercato.
Volevo dimostrare che nell’economia di un disco non conta quanto sono grandi i nomi, ma conta la qualità delle canzoni. Lo vedo anche come un senso del dovere personale, comunque io mi rivedo molto in loro, con persone con dieci o quindici anni più di me che mi chiedevano di collaborare, ai quali sarò sempre grato. Sento che è giusto per me ricambiare e provare a portare su chi se lo merita.

Noi pensiamo all’arte, voi piazzate gli asterischi” canti nell’opening di Outsider: in un periodo di cancel culture, con l’episodio più recente accaduto ad Emis Killa poche settimane fa, quanto è complesso e critico essere artisti?
Si cerca sempre un colpevole contro cui puntare il dito, così da poter andare a letto contenti ed anche oggi si è stati delle brave persone, con la coscienza a posto sentendoti un po’ meno verme. 
Personalmente sono sempre molto aperto al dialogo, sono il primo che vuole anche far capire cos’è l’intenzione del rap e come si è evoluta negli anni. All’inizio è nato in Italia come un movimento quasi esclusivamente sociale e politico, esprimeva solo canzoni che parlavano della società, se parlavi di te stesso passavi per quello pesante. Poi arrivano le ondate di Eminem, con l’introspezione, e di 50 Cent, col gangsta rap, cambiando il focus. 


Nitro, Roberto Graziano Moro

I temi trattati dal rap si sono un po’ alleggeriti?
Anche il linguaggio cambia, influenzato anche dal successo del genere stesso. Non è che una volta i testi rap erano più misogini, semplicemente erano più volgari in toto, su tutti gli argomenti. Tra questi c’erano le donne. Ma non perché il rap ce l’avesse con le donne, piuttosto ce l’aveva con la radio, con le istituzioni, tutto ciò che era commerciale e non ci consentiva di andare in radio nemmeno quando facevi il pezzo apposta. Che facevi quindi? Sputavi merda tentando di ottenere attenzione in un altro modo, creando scandalo, controversia, dissenso, ma anche conversazioni, dialogo, discussione. Per questo il rap che arriva fino al 2013, generalmente, è molto più violento. Servirebbe davvero darsi una calmata e cercare di analizzarle, le cose, prima di giudicarle, sotto ogni punto di vista.

Stan di Eminem è il primo esempio che mi riporta a ciò che hai detto: fosse uscito oggi, cosa avremmo detto?
Tutto dipende dal contesto in cui esce: non si può accusare la cultura di vent’anni fa di essere retrograda. Se abbiamo fatto qualcosa di giusto come società è giusto che la cultura di vent’anni fa sembri retrograda rispetto ad adesso, sennò vuol dire che stiamo tornando indietro.

Come d’altronde è stucchevole il fatto che sembra debbano essere gli artisti a dover educare le generazioni di ragazzini attuali, quando alla fine gli artisti sono, semplicemente, artisti…
Se devi cercare insegnamenti da un artista per tuo figlio, vuol dire che tutto il resto del sistema, che dovrebbe dare insegnamenti a tuo figlio, ha fallito. Quindi sì ok, va bene, è colpa mia, ma prima di me ci sono altri responsabili a cui tirare le orecchie. Come dicevamo prima, è più semplice incolpare l’artista di misoginia (Emis Killa nel caso di Ladispoli, ndr). 
Poi io sono sempre a metà in questi ragionamenti. Tenderei ad avvisare i ragazzi che fanno la musica, perché sì ok, è un gioco ma occhio, che ci sono certi ragazzi che ascoltano le tue cose e ci si rivedono, comunque non sai le reazioni che puoi suscitare. Sei un rapper, puoi dire quello che vuoi nelle canzoni? Allora saprai anche dire quando sei ironico e quando non lo sei.

Come può emergere un outsider nella società attuale e come può farlo nell’industria del rap, che sempre più spesso ha tempi di consumo enormemente brevi e veloci?
Puntando sulla qualità della musica e sulla performance dal vivo. Tanti gruppi che magari sono poco seguiti su Spotify fanno tour enormi, con tantissima gente, ed allora dici “Che me ne frega a me del numerino sulla piattaforma se sotto il mio palco vedo tutte quelle persone?”. Per me questi sono i prossimi outsider, chi comincia a privilegiare la performance ed a trattare meglio il proprio pubblico reale, umano, di carne che hanno davanti, e non il numero sul telefono. Se io vendessi una copia per ogni follower che ho avrei disco di diamante, non d’oro o di platino, no? Quindi è statistica che la gente che viene ad un tuo concerto è molta meno di quella che ti segue e guarda quello che fai. Ricordarsi, da artista, qual è la parte di pubblico che ti da di più ed a loro dare un trattamento di fiducia, di piacere, comunque diverso dal resto.

Qual è stato il momento della tua carriera in cui non ti sei più sentito un outsider?
In realtà mai, è proprio questo il mio più grande problema. In ogni gruppo sociale ad un certo punto mi sento quello un po’ diverso, è una caratteristica della mia personalità, a volte nemmeno a me piace. Però quando non mi sento genuino io posso buttare in vacca tutto, senza minimamente averne interesse. Voglio sempre essere genuino, la genuinità è l’unica cosa che mi tiene ancorato all’amore che ho per la musica. Se perdo quella potrei anche farti la lista della spesa rappando, non me ne fregherebbe niente.

A che punto della carriera ti senti?
Mi sento come se dovessi ancora ottenere quello che mi ero prefissato, anche se in realtà il mio sogno era quello di fare disco d’oro con un disco rap hardcore: ce l’ho fatta con Suicidol al secondo tentativo. Quando sogni, poi questi si ingrandiscono… Sono contento, ora, della qualità degli ascoltatori che ho: sono tutte persone intelligenti, molto sensibili, ai live mi fanno sentire come se fossi sempre a casa mia. Vorrei, ho la fame ed un minimo di spocchia, che la mia musica arrivasse a più persone, per il messaggio che dà. Ma non è una cosa che devo decidere io, ma il pubblico nel momento in cui ascolta. E non è detto che il momento arrivi esattamente quando esce quel disco, possono pure passare anni.

Come ci stai lavorando?
Cerco di essere sempre soddisfatto delle canzoni che faccio e di dire: questa frase me la porterei fino alla tomba. Non mi faccio vergogna di salire su un palco a cantarle perché le urlerei in faccia a Dio, se potessi.