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Il fascino dei Dirty Honey

Ok i paragoni con Led Zeppelin, Aerosmith e AC/DC, ma i Dirty Honey vogliono andare oltre. «Il rock & roll non è solo performance», ci spiega in questa intervista il leader Marc LaBelle

È stata una bella coincidenza a guidare l’intervista ai Dirty Honey, la band di Los Angeles che ha già fatto il giro del mondo grazie ad un perfetto distillato di rock & roll – si sono susseguiti innumerevoli paragoni a Led Zeppelin, AC/DC, Aerosmith, Black Crowes e Guns N’ Roses – ed una rilettura di quelle sonorità leggendarie in chiave contemporanea. Don’t Put Out The Fire, traccia di apertura del loro nuovo album, Can’t Find The Brakes, è stata la colonna sonora di una mia sessione di corsa, durante la quale non ho fatto altro che pensare quanto fosse un gruppo incredibile. Ed ecco arrivare, qualche giorno dopo, la possibilità di intervistare Marc LaBelle. Una chiacchierata, ma soprattutto un viaggio, tra il passato, il presente e il futuro dei Dirty Honey, passando per le tappe che hanno condotto alla release del secondo lavoro in studio.

Can’t Find The Brakes: a che cosa si riferisce?
Il titolo del disco rimanda molto a ciò che stiamo vivendo attualmente, dall’andare in tour, alle sessioni di registrazione, fare concerti, condividere esperienze sul tour bus, viaggiare anche in questo momento per tutta la nazione o aprire i concerti dei Guns N’ Roses che è stato spettacolare. Can’t Find The Brakes descrive perfettamente il “crazy train” su cui stiamo correndo. È la nostra vita, è la musica.

Nel 2019, è uscito il vostro EP autoprodotto Dirty Honey che, nel 2021, completato con nuove canzoni, è stato pubblicato come vostro primo album, mentre per Can’t Find The Brakes vi siete affidati ad un’etichetta.
Can’t Find The Brakes è stato prodotto da Nick DiDia (Rage Against The Machine, Bruce Springsteen, Pearl Jam, Stone Temple Pilots ndr.). La differenza sostanziale tra il precedente album ed il nuovo è che finalmente siamo riusciti a lavorare assieme, a contatto diretto, cosa che non era stata possibile durante la pandemia. Siamo volati in Australia e abbiamo sperimentato pattern sonori più vicini al blues, all’heavy rock & roll, a sonorità acustiche, mettendo tutto il nostro impegno, sia da un punto di vista di melodie che di testi, per questo l’album è così ricco ed eterogeneo.

Infatti l’album mescola perfettamente il vostro stile a numerose attitudini differenti, da canzoni con riff graffianti a ballate malinconiche, questa eterogeneità contempla anche il desiderio di andare oltre le aspettative del vostro pubblico?
Volevamo anche andare oltre quelli che sono sempre stati gli accostamenti ai Led Zeppelin, Rolling Stones, Aerosmith, agli AC/DC e a tutte quelle che sono definite di solito “rock & roll band” che, certamente, amiamo ma volevamo fare qualcosa di davvero, di nostro. Ho lavorato anche molto di più sulla mia voce e sulla mia espressione artistica, nel desiderio di dire qualcosa che vada oltre un genere. Abbiamo sperimentato di più, ci siamo spinti sia più in profondità sia oltre quello che il nostro pubblico poteva aspettarsi. Considero questo processo una grande crescita, come artista e come musicista.

E che cosa significa oggi, nel 2023, suonare questo genere di musica che si rifà ad un periodo leggendario della storia del rock?
È entusiasmante e molto divertente, sia quando ti trovi in studio con la band per registrare sia quando vai in tour. Ed è anche bello essere un’ispirazione per la nostra generazione e per tutti coloro che amano le chitarre o cantare insieme ai concerti in modo autentico, oltre quello che oggi è diventato un grande business, soprattutto in merito all’organizzazione dei tour e dei concerti. Molti concerti sono ormai quasi preimpostati, identici, data dopo data: quando ne hai visto uno è che come se ne avessi visti venti.

I Dirty Honey come cercano di deviare questo trend?
Lo spirito del rock & roll che vogliamo racchiudere nella nostra musica e nei nostri concerti è cento per cento live: ogni data è a sé, come ogni assolo o anche ogni episodio in cui capita di dimenticarsi delle parole di alcuni testi. Il rock & roll non è solo performance: ha le sue sfumature, i suoi momenti di picco di emozioni, la sua spontaneità. Quindi cerchiamo sempre di coniugare il mood degli show con quello dei concerti vecchio stampo.

Dirty Honey, foto di Katarina Benzova

C’è una canzone all’interno di Can’t Find The Brakes a cui sei particolarmente affezionato?
C’è una ballad, quasi alla fine dell’album che si intitola You Make It All Right: rappresenta un momento magico per tutta la band. Prima di entrare in studio non c’era nulla di questa canzone. È stato qualcosa che è semplicemente accaduto, da qualche accordo al piano. Poi abbiamo iniziato tutti ad allinearci, John alla chitarra, Justin al basso e Jaydon alla batteria. Mi commuovo ancora quando riascolto la demo della voce registrata sul mio telefono, nel cercare qualcosa che potesse diventare una canzone, perché davvero non avevamo nulla. Di solito si inizia da un riff o da qualche verso. Per You Make It All Right siamo partiti da zero e dopo venti minuti avevamo un nuovo brano per il nostro album.

Il vostro tour toccherà anche l’Italia: suonerete all’Alcatraz di Milano l’8 marzo. So che hai vissuto qualche anno in Italia.
Devo riallenare il mio italiano (lo pronuncia in italiano ndr.). Il nostro rapporto con i fan italiani è incredibile, è uno dei pubblici che regala più supporto e più calore.Per me, poi, è ancora più speciale come legame. Quando ho vissuto a Firenze, spesso suonavo lì, per poi ritrovarmi a suonare davanti a sessantacinquesima persone a San Siro, nel 2022, assieme ai Guns N’ Roses. È stato un vero onore, anche per l’amore che provo nei confronti dell’Italia, per la sua bellezza, per la sua storia.

L’Italia ti ha mai ispirato nello scrivere canzoni?
Credo che in Coming Home ci sia qualcosa. È un brano che parla di viaggio, del mio viaggio. Posso dire di non avere una vera casa. Sì, vivo in California ma passo molto tempo anche a New York e anche l’esperienza in Italia è parte integrante della mia storia. Ogni volta che torno in Italia mi sento a casa. Mi immagino godermi la vecchiaia nella campagna toscana, guardare il panorama e bere vino. Non sarebbe per niente male.

Voglio concludere l’intervista citando la traccia Rebel Son, che chiude Can’t Find The Brakes. Quanto vi sentite ribelli come band e quale pensi sia, oggi, l’espressione più autentica della ribellione?
La vita stessa dovrebbe essere una ribellione alla società e a tutti quelli che pensano di poter dire come si dovrebbe vivere la propria vita. Lo dico anche in riferimento al “sogno americano” che si è tramutato in una versione molto più ordinaria: andare al college, comprare una casa, avere figli, crearsi una propria comfort zone. Per me non c’è nulla di più lontano come visione. O meglio, adoro l’America ed il suo spirito ma credo che qualcosa si sia perso, al giorno d’oggi. Continuo a credere nel sogno americano nell’accezione di farcela da soli, di non sapere che cosa succederà ma avere sempre e comunque fiducia. Essere un musicista racchiude già molto di tutto questo, dal “vaffanculo” alla società e alle relative aspettative al credere nel proprio percorso. Come band, viviamo spesso e volentieri su un bus e non c’è nulla di più lontano dalla visione ordinaria delle cose. Ma è questa l’autenticità ed è questo il nostro modo ribelle di aderire pienamente alla nostra natura rock & roll.