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Uno, nessuno, centomila Allegri Ragazzi Morti

Siamo entrati nell’anima di Davide Toffolo per scandagliare i fondali oceanici dei Tre Allegri Ragazzi Morti: dalla provincia ai mondi immaginari

“Jennifer, ma perché tutti ragazzi di provincia sono dei morti viventi?”, chiede la ragazza con le lentiggini dentro il televisore in fondo alla stanza. È una classica telenovela statunitense di serie b e, a giudicare dalla fotografia, risale agli anni Novanta. Ora: francamente questo non dovrebbe attrarre più di tanto la mia attenzione, se non fosse che lo stesso polpastrello che ammutolisce la risposta di Jesse sta per premere su “Davide Toffolo”, tra i contatti della rubrica dell’iPhone. C’è un fil rouge che connette quelle parole in tv e la persona che sto per chiamare, perché Davide è il frontman di una band manifesto dell’alternative italiano che nasce in provincia e prende il nome di Tre Allegri Ragazzi Morti. È dalla rielaborazione di quel dialogo che inizia la nostra chiacchierata. «La provincia ha dei modi e dei tempi diversi rispetto alle grandi città. Mi piace definire Pordenone una “provincia morbida” – piena di suggestioni, senza storia, con una forte tradizione legata al rock».

Vi sentite voce della provincia italiana?
Sì, soprattutto da quando abbiamo creato La Tempesta (etichetta discografica indipendente ndr.), che si è fatta ricettacolo di musica perlopiù proveniente dalla provincia. Tuttavia negli ultimi anni questa possibilità da parte delle province di avere una identità si è un po’ indebolita.

Credi rinascerà questo desiderio?
Probabilmente già è rinato, nel senso che quando si cerca di capire una cosa, questa è già andata da un’altra parte.

Negli anni di te ho amato la grande interdisciplinarità. Mi racconti come vivi questa coabitazione di arti visive e musica?
Il mio primo super potere è stato quello del disegno, che è anche il mio linguaggio preferito e quello su cui ho investito più energie. Poi, proprio grazie all’illustrazione, sono entrato in contatto con le band – prima ancora di crearne una. Negli anni comunque questi due binari hanno corso parallelamente e mi sento molto privilegiato ad esser riuscito a mantenere una certa credibilità in entrambe le discipline. In Italia soprattutto è molto raro che si verifichi.

A tal proposito, riesci a riconoscere quando finisce il tratto che disegna storie e inizia quello che scrive testi oppure per te è tutto un grande viaggio di ricerca espressiva?
Sono due cose distinte: il disegno ha una dimensione molto intima e solitaria mentre la musica nasce già con lo scopo di intercettare la collettività. Questa distanza è verificata anche dal fatto che molte persone che mi conoscono come musicista non sanno della mia carriera come fumettista e viceversa. Inoltre mi piace che ognuno possa incontrare le mie storie nello spazio giusto per fruirlo, senza sovrapposizioni di sorta.

Da ventinovenne sto vivendo molto male l’avvicinamento ai trenta perché è una età in cui si fanno i primi bilanci. Come sono invece i primi trent’anni dei Tre Allegri Ragazzi Morti?
Siamo coetanei allora (ride ndr.). Ad ogni modo “bilancio” non è una parola presente nel vocabolario dei Tre Allegri Ragazzi Morti. Posso dirti che sono stati trent’anni pieni di energia in cui sistematicamente si è riproposta la sindrome da prima volta. I concerti sono una cosa effimera che sparisce quando le luci si spengono e dunque in qualche modo si ricomincia sempre da capo. Inoltre siamo immersi in questa vita da nomadi che ci restituisce un continuo senso di contemporaneità e non lascia spazio a rimorsi o malinconie.

Vale lo stesso per i dischi, corretto?
Sì, assolutamente. Lo diceva anche Vasco Rossi: «Quando hai fatto un disco non è detto che tu possa farne un altro». E infatti per noi ogni volta è come una magia o una epifania perché non si impara mai a fare un disco, anche dopo averne fatti molti.

Hai mai avuto paura di aver finito le parole?
Noi abbiamo cercato di tenere viva la nostra ispirazione incontrando le persone. È questa la chiave che ci ha condotti a realizzare dischi dalle suggestioni sonore più diversificate: abbiamo incrociato per la strada il reggae, lo swing, il rock e persino la dub seppur cercando di mantenere una certa identità stilistica. Siamo dei vampiri che succhiano ispirazione dai contesti che vivono senza badare minimamente al successo. Tra l’altro il fatto di non aver avuto mai un successo eclatante ci ha permesso di vivere senza pressioni addosso. Non c’era nulla da dover ripetere su richiesta.

La forza della vostra musica, un po’ come per certi versi accadeva agli Smiths, risiede secondo me nel cortocircuito generato dall’antipodo: allegri, ma morti, il richiamo al canto popolare ma con veste alternative, storie di personaggi macchiettistici, ma che vivono i drammi collettivi di tutti noi. Che ruolo ha il contrasto nella musica dei Tre Allegri Ragazzi Morti?
Io lo chiamo ossimoro. Lo definiva così anche Pasolini. In effetti tutto è ossimorico nei Tre Allegri Ragazzi Morti a partire dal fatto che il nostro essere un gruppo senza immagine sia diventato oggetto di vendita. È una forma poetica interessante che esploriamo di continuo.

Alludevi alla scelta di indossare una maschera, deduco. Mi racconti come nasce quella suggestione?
C’è questo film del 1931 dalla regia di Ėjzenštejn che si chiama Que viva Mexico! che mi folgorò. C’erano delle maschere tradizionali messicane che ho deciso di stilizzare e poi utilizzare. Oggi il tema e l’utilizzo della maschera sono molto più diffusi nell’ecosistema musicale di quanto non lo fosse allora.

Il primo utilizzo risale al video di Mai come voi, corretto?
Sì, esatto. Erano molto artigianali all’epoca poi successivamente sono diventate una vera e propria necessità perché ai concerti non potevamo più chiedere alle persone di non fotografarci o fare riprese. Da quel momento in poi ogni live è diventato una riproposizione a tutti gli effetti della dinamica della maschera teatrale.