A questo punto non è più nemmeno questione di musica. Quando Vasco Rossi sale sul palco dello Stadio Olimpico, quello che accade travalica l’idea stessa di concerto. È un rito collettivo, una celebrazione che riguarda molto più di una serie di brani che si susseguono. È la prova vivente che si può essere leggendari senza essere inarrivabili, eterni senza essere immutabili, e soprattutto che si può parlare a sessantamila persone restando, in fondo, sempre uno di loro. Quasi mezzo secolo dopo, Vasco è ancora la voce di chi si è sentito sbagliato, fragile, spaventato, ma non ha mai smesso di provarci. E proprio per questo, ogni volta che torna sul palco la sensazione è quella di una resa dei conti emotiva tra il pubblico e la propria storia. Non c’è distanza tra lui e chi lo ascolta, perché Vasco è il primo ad aver vissuto tutto – e ad averlo messo in musica. Senza filtri, senza sovrastrutture. Solo con la sincerità brutale di chi ha sempre detto “io sono così”, prima ancora che fosse una moda.

Stavolta sceglie di aprire con la canzone che, normalmente, negli anni ha sempre anticipato la chiusura: quella Vita spericolata che non è mai stata una ballata sull’eccesso, ma una richiesta d’amore, un bisogno di sentirsi vivi. In questo sta la grandezza di Vasco Rossi: nella capacità di far risuonare le sue canzoni dentro le vite degli altri, come se fossero sempre state lì, a raccontare quello che non sapevamo dire. A settantadue anni, Vasco continua a stare sul palco con la naturalezza di chi non ha mai smesso di farlo. Ogni parola che esce dalla sua bocca ha ancora il peso di un’esplosione emotiva. Non ha bisogno di dimostrare nulla, e forse è proprio questo a renderlo così potente: canta perché deve, non perché può. E la sua voce, graffiata, stanca, a tratti rotta, è più credibile di mille virtuosismi. Perché è vera. Perché è umana. Ed ecco quindi susseguirsi Valium, Vivere, Mi si escludeva, Gli spari sopra, Quante volte, Un gran bel film, Vivere non è facile. Tutti brani che sono memoria emotiva di un Paese. Ma non una memoria celebrativa o istituzionale: è quella che ti prende a pugni nello stomaco, che ti fa ricordare dove eri, chi eri, con chi eri. D’altronde le sue canzoni non invecchiano perché non si limitano a raccontare il tempo, ma raccontano come ci si sente in ogni tempo.

Poi ancora Senza parole, Sally, Se ti potessi dire, Siamo solo noi e quell’Albachiara, sul finale, che non è un semplice bis, non lo è mai stato. È un rito conclusivo, un abbraccio collettivo tra lui e chi lo segue da sempre. È un arrivederci che sa di promessa, una stretta di mano ideale che unisce sessantamila voci in un’unica, inconfondibile melodia. È la dichiarazione d’amore finale, quella che ci si ripete per essere sicuri che sia vera. E lo è. In un’epoca in cui tutto è levigato, costruito, digitale, Vasco Rossi è l’ultima vera voce analogica. Quella che gracchia, che trema e che porta con sé le cicatrici di una vita intera, le notti insonni, le fughe, i ritorni, le cadute e le rinascite. E lo fa ancora oggi, con la stessa forza di quarant’anni fa. Non perché voglia dimostrare qualcosa, ma perché non ha mai smesso di crederci. Uno che ci guarda negli occhi e ci dice, ancora una volta, “io sono così”. E a quel punto, siamo tutti un po’ più noi stessi.