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Liberato s’è pigliat Roma

Luci rosse sugli schermi che a poco a poco si affievoliscono. I decibel calano, restano i riverberi. Lunghissimi. Sfumano nel boato emozionato di chi, la prima vera di Liberato (perché questo è stato Roma Liberata) non poteva perdersela. Ma partiamo dall’origine. Sono le ventidue e quarantacinque minuti spaccati (appena un quarto d’ora di ritardo rispetto alla tabella di marcia) quando i tre maxi led dell’Ippodromo delle Capannelle si popolano di motivi a strisce radiali in bianco e nero, poi un cerchio nero che si gonfia e si sgonfia come la luna durante un’eclissi.

Nel cielo stellato di smartphone, con un aereo di linea alle spalle dell’impianto, risuona la sirena e lo schermo si spegne mostrando la sua natura semi trasparente (tecnologia di led molto diradati in grado lasciarsi guardare attraverso. U2 nei palasport per intenderci). Due percussionisti ai lati, una tastiera al centro. Entra l’uomo mascherato, l’oggetto del mistero. «We We We Roma, faccim’ ammore sì o no?». Si sente, si intravede la silhouette, ma potrebbe essere chiunque a quella distanza. “Guardam ‘nfacc/Dind’ all’uocchie ce sta ‘a nostalgia/No, nun c’a facc”, con questa frase quantomai azzeccata per raccontare lo stato d’animo della folla di presenti, Liberato apre uno show che durerà fino alla mezzanotte e dodici. Arrivano una dietro l’altra hit tratte dal secondo capitolo del suo racconto.

È il turno di Oi Marì e lo schermo si alza, eppure resta impossibile cogliere qualcosa dentro quel cappuccio scuro. L’aria è elettrica, o meglio: elettronica, perché ogni brano ha un codone dance che catapulta il popolo di Liberato in una serata di Cosmo, dove muovere piedi e braccia è quasi un dovere morale. Una scarica di adrenalina fortissima accompagnata da visual astratti, alla Ryoichi Ikeda, senza lasciare spazio a neanche un frame di Lettieri, come a dire che il live ha una dimensione tutta sua e una propria forma d’espressione dalla quale esula il cortometraggio d’autore. Tradotto: è una serata molto incentrata sulla musica, sul divertimento, sulla napoletanità mista alla lingua degli americani.

Arriva infatti una luna gigante sullo schermo e una versione di Stand By Me di B.E. King che sconvolge i presenti. Ma si tratta di un mashup con Gaiola Portafortuna e infatti si torna subito a Spaccanapoli. Si susseguono una dietro l’altra tutte le perle dell’artista lasciando spazio a qualche attimo di goliardia (c’è, per esempio, un accenno a Tammurriata Nera). Liberato manda segnali, la folla risponde in un mix di cantautorato e techno, mitologia greca e sana cazzimma.

La versione più emozionante è quella di Nove Maggio, introdotta da un coro quasi a cappella in grado di distribuire equamente la voce dei presenti a quella del cantante napoletano (a proposito: un nostro caro amico è pronto a giurare che nell’accento di Liberato ci sia qualcosa di riconducibile all’hinterland napoletano più che ai quartieri antichi della città). Arriva Tu T’e Scurdat’ ‘e Me che ovviamente chiude la scaletta, e dunque luci rosse sugli schermi che a poco a poco si affievoliscono. I decibel calano, restano i riverberi. Lunghissimi. Sfumano nel boato emozionato di chi, la prima vera di Liberato (perché questo è stato Roma Liberata) non poteva perdersela.

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