dark mode light mode Search Menu
Search

È necessario che faccia una premessa: io ai miei figli racconterò degli anni del mio percorso universitario come di un periodo bellissimo la cui colonna sonora era composta da brani di Calcutta, i Cani e soprattutto Thegiornalisti. Tutto a Roma nelle Accademie parlava della stagione dell’indie italiano: dai muri imbrattati di frasi che oggi sembrano non sense, anche se, cazzo, per noi “ragazze, vi prego, non lisciatevi i capelli” un senso ce l’aveva eccome. Tutto di quella scena era culto e personalmente non rinnego nulla, anzi. Poi, per me in particolare, che stringo al petto una fede biancoceleste, Tommy è stato una sorta di vanto, di rifugio, di faro in quella Roma Sud delle metropolitane sporche che, dopo i derby persi dalla Lazio, ti faceva sentire l’adolescente in sovrappeso del primo banco da bullizzare in un mondo di body shamer di professione. A differenza di altri, l’ho amato profondamente per la sua capacità di esporsi in quasi ogni ambito.

Detto ciò mi chiedo se te che stai leggendo questo pezzo conosca un po’ la storia di Michael Jordan. Roba d’altri tempi, roba che conosciamo solo come documento storico noi che abbiamo fatto l’università con Mare Balotelli nell’iPhone 6. Senz’altro però saprai della sua rocambolesca fuga dal mondo del basket per raggiungere le minor di baseball (assecondando così il volere del padre, ucciso a sangue freddo nella sua auto). In quell’occasione, la stupidaggine di Jordan fu apostrofata da Sport Illustrated con un titolo divenuto storia della comunicazione sportiva. Quel titolo era: Bag it, Michael (ossia Piantala, Michael).

All’uscita di Ricordami di ieri notte, purtroppo, ho pensato più o meno la stessa cosa. Piantala Tommy, piantala di essere una macchietta di tutto ciò che hai amato in giovane età, piantala col voler a tutti i costi scrivere colonne sonore di Verdone (preciso: lui è il mio attore e regista di commedie preferito), piantala di scimmiottare Antonello Venditti (preciso: lui è il mio cantautore romano preferito), piantala di fare musica da cinepanettone (preciso: a me i cinepanettoni fanno abbastanza schifo). Se non altro perché finché queste fonti d’ispirazione hanno contribuito a costruire lo stile dei Thegiornalisti prima, e di Paradiso solista poi, tutto bene. Peccato che ultimamente (da dopo Non avere paura) tutto suoni così plasticoso e macchiettistico da far cambiare idea anche ad un profilo come il mio, che tanto non si discosta da quello che potremmo definire l’identikit del fan.

Ricordami – e onestamente me ne dispiaccio come un bimbo a cui è stato detto: “No, niente tv. Al letto” – ha le linee melodiche più imbarazzanti della carriera di Paradiso. Mi hanno ricordato Cristina D’Avena e le sigle dei cartoni animati. Questo paragone, se lo leggesse il Tommaso di oggi lo parafraserebbe come un complimento, ma è evidente che la smania di successo (che peraltro, a differenza di quasi tutti gli ascoltatori della prima ora, gli ho sempre perdonato e giustificato fin dai tempi di Pamplona) sta sfociando in qualcosa di nocivo. Nocivo per la sua musica, che oggi più che mai sembra essere una lontana parente di quella di Fuoricampo e Completamente Sold Out, nocivo per la sua immagine, che oggi sembra più facile da accostare a Maria De Filippi che a Pippo Baudo, più a Irama che a Vasco Rossi, più alla sigla di Pollon che a Tra la strada e le stelle.

Metto un po’ di pepe e chiudo quella che finirebbe per non esser altro che un’imbarazzante lettera aperta di un fan deluso al suo beniamino: ma non sarà che l’amore, le certezze, le Jaguar, gli amici in spunta blu e le edizioni di Vanity Fair abbiano offuscato un artista che da bisognoso e affamato si è ritrovato ad essere semplicemente troppo felice per essere un cantautore? Se così fosse, per Tommaso, che mi ha aiutato tante volte nelle cuffiette, sarei disposto anche a chiudere un occhio. La felicità è sempre la risposta giusta. A prescindere dalla domanda.