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Il Tre è l’antieroe del rap game di cui avevamo bisogno

Prima di rispondere, il telefono squilla parecchio. Anche mentre ci presentiamo la voce va e viene per qualche secondo. Resto in linea, Warner ci rimette in contatto. «Scusami, ho qualche problema tecnico», mi dice. Guido, in arte Il Tre, è uno di quelli che soffre a fare il suo lavoro a distanza, senza il contatto umano. È però anche uno di quelli che non può fermarsi proprio adesso, costi quel che costi deve andare avanti a tastoni nel buio. I suoi abbaglianti sono le rime. Ali (il suo album d’esordio ndr.) l’ha lanciato in un momento incerto, senza sapere quando potrà portarlo in giro per l’Italia; è anche un album vario, inaspettato, di quelli che potrebbero non funzionare sulla carta, ma che alla fine funzionano proprio perché cambiano le regole del gioco.

C’è una sezione di archi all’inizio dell’album, quasi orchestrale. Più avanti c’è addirittura un tributo al più grande pianista di tutti i tempi. Cosa ti ha portato a sperimentare così tanto?
Su Beethoven la scelta è stata ovviamente guidata dal titolo, era una suggestione che poi alla fine ha preso forma, mentre per tutte le altre contaminazioni disseminate nel disco, direi che derivano dal mio profondo amore verso gli strumenti classici come il pianoforte e gli archi. Mi affascinano molto e ogniqualvolta si crea l’opportunità, li faccio entrare in contatto con i miei testi. Sperimentare è essenziale per me: non mi pongo mai limiti in tal senso; che sia pop, rap o classica, l’importante è che senta il prodotto finale mio al cento percento.

Devo chiedertelo, come fai ad essere astemio se il tuo paese di origine (Santa Maria delle Mole ndr.) è a due passi dai Castelli Romani?
(Ride ndr.). Credo sia stato un vantaggio anche musicale e ti spiego perché: il mio non rispettare i canoni del rapper, il mio essere sempre controcorrente permette a chi mi segue di percepire una certa onestà, un totale senso di trasparenza, capisci?

Quindi non hai mai avuto neanche una volta il pensiero di scrivere una rima sui temi stereotipati del rap?
Non riuscirei mai a scrivere di qualcosa che non conosco o vivo sulla mia pelle.

Hai rifiutato Amici e X Factor, non era roba per te?
Non reputavo quel percorso una reale opportunità per me né credevo potesse valorizzarmi. Malgrado le proposte molto lusinghiere alla fine ho scelto di non partecipare ad Amici e di non proseguire nei provini di XFactor (anche se era stato selezionato per accedere alla fase successiva ndr.).

E invece Sanremo, ci penseresti? Anche perché tu non dovresti aver paura di metterti in gioco, hai fatto decine di battle.
Non ci penserei neanche un secondo, nel senso che se avrò l’opportunità di andare a Sanremo con un brano secondo me adeguato, lo farò con assoluta certezza. Come dicevi giustamente tu, sono abbastanza abituato a mettermi in gioco, faccio battle da qualche anno ormai e credo che se si partecipa per portarsi a casa una esperienza e non per forza la vittoria, l’Ariston è senz’altro uno dei palchi più importanti che si possano calpestare.

La tua diversità sarebbe un problema a Sanremo?
Questi sono i cosiddetti rischi del mestiere. La novità fa quasi sempre storcere il naso a qualcuno. Mi sento di dire che se non accade – se qualcuno non resta destabilizzato, insomma – forse c’è qualcosa che non va. Se un artista porta roba fatta bene e soprattutto roba vera, non c’è motivo per cui possa non andare, anche se è un linguaggio alternativo.

Uno che a Sanremo ha portato innovazione è senz’altro Clementino.
Clemente
l’ho conosciuto al Carroponte di Milano, durante l’evento di Real Talk. «Ué, Tre tu sei forte», mi ha detto una cosa del genere. Per me fu allucinante. Poi col tempo ci siamo iniziati a sentire su Instagram e molto genuinamente è nata l’idea di collaborare per un pezzo. Non credo abbia bisogno dei miei complimenti, però non posso non dirti che sono cresciuto con la sua musica e che questo featuring (Sogni e Incubi ndr.) mi ha dato una enorme soddisfazione.

Dimmi un po’ di Real Talk, per te è stato un vero e proprio trampolino di lancio.
Real Talk in effetti è stato la prima grande vetrina su cui mi sono esposto. All’inizio c’era un po’ di preoccupazione perché prima di me avevano partecipato dei mostri sacri: dallo stesso Clementino, a Nayt, Mostro e Vegas Jones, tutti artisti che sono finiti dentro Ali. Non riuscivo a scrivere, ma da qualche giorno mi girava in testa questa cosa: “La mia occasione non la spreco” e quella frase è diventata la prima barra del freestyle.

Cracovia invece come è nata?
Cracovia, era una parola che mi piaceva moltissimo. Suonava bene, non trovi anche tu che sia una parola stupenda? Non nasce con l’idea di essere una saga, poi però col tempo ho capito che quella era la mia comfort zone. Cracovia è nel contempo esercizio di stile e distruzione. Il concept sicuramente è simile a Veleno di Gemitaz, Allenamento di Capo Plaza o Lewndowski di Ernia. È un modo alternativo per esprimersi e come ti dicevo, è la mia reale pelle.

Ironia della sorte: un artista dedito alla dimensione live come te lancia il suo disco durante una pandemia globale che sta mettendo in ginocchio il settore degli show dal vivo.
È un punto a mio sfavore questo periodo storico. Per me il live è tutto ma sono fiducioso e credo l’unica cosa che io possa fare è continuare ad aprire date calendarizzate con larghissimo anticipo, con la speranza che le persone possano partecipare a questi eventi. Che sia tra nove, dieci mesi, magari un anno non fa differenza. Essere speranzosi in questo caso specifico è quanto di meglio si possa fare. Quando faccio un disco è principalmente per portarlo live, questo è quello che mi interessa più di tutto, ma l’adattamento è un principio fondante nella carriera degli artisti, e più in generale nella vita degli esseri umani.

Chi sono i tuoi ascolti?
Ascolto di tutto, in una mia playlist potresti trovare un pezzo di Eminem e uno di Zucchero. Mi piace spaziare tra i generi ed inevitabilmente questo essere bipolare e onnivoro mi aiuta ad esprimermi al meglio.

A proposito di Eminem, ho letto da qualche parte che è il tuo artista preferito, c’è un brano che in un certo qual modo parla di te?
Lose Yourself è senza dubbio il brano che più mi rappresenta. Ci sono cresciuto e credo sia uno di quelli che avrei maggiormente voluto scrivere io. Amo il tema dell’opportunità, delle chance, di pallottole da giocarti, mi racconta appieno e infatti anche su Real Talk l’ho riportato. Quelle chitarre poi, che spesso ho deciso di usare anch’io, sono una grande prova di perizia da parte sua in cui riesce a far sfoggio di crossover. Questa cosa mi piace molto.

E della scena romana?
Non so spiegartelo: mi sento parte della scena ma nello stesso tempo mi sento molto diverso da chi mi ha ispirato a 15 anni. L’artista da cui ho preso più ispirazione è senza dubbio Gemitaiz.

Immagino anche il Truceklan.
Sì certo, anche loro sono stati dei punti di riferimento per la mia genesi come rapper. Se sono quel che sono è senza dubbio anche grazie alla scena romana.

Nitro in un’intervista ha detto che quando sta male scrive, quando sta bene esce. In realtà sono più che sicuro che prima di lui lo avesse detto Luigi Tenco. Anche per te è così?
È complesso per me. Io quando sto vivendo un momento difficile immagazzino, quando poi sono sereno o comunque in un territorio neutrale, vado a riprendere dai cassetti le sensazioni che mi hanno fatto male e le provo a descrivere. Quindi sì, dalla tristezza nasce quasi sempre qualcosa di musicalmente buono, ma quando ho appena vissuto la botta emotiva non riesco ad aprirmi fino in fondo.