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Quindi, questi Greta Van Fleet sono o non sono i salvatori del rock?

Quando mi hanno proposto di ascoltare e recensire il nuovo disco dei Greta Van Fleet, ho avuto un leggero attimo di esitazione. Trattare di una band che in questo momento ha un’attenzione mediatica così forte significa necessariamente finire in mezzo a qualche polemica (basti vedere cosa è successo con la vittoria dei Måneskin a Sanremo). Sono o non sono la copia sputata dei Led Zeppelin? Sono o non sono i salvatori del rock? Sono o non sono comunque preferibili alla dilagante corruzione morale portata dalla trap? Ecco, cose di questo tipo, che ti fanno rimpiangere i pranzi natalizi con i parenti dove lo spettro del dibattito politico è sempre dietro l’angolo. Il mio attimo di esitazione, per l’appunto, è durato solo un attimo. Ho deciso di ascoltare il disco e scriverne due parole a riguardo. Ma prima di affrontare la seconda fatica dei fratelli Kiszka, è giusto fare chiarezza su alcuni punti che a mio avviso sono importanti, e che servono a fugare qualsiasi dubbio in merito alla mia posizione nei loro confronti. In questo momento storico, i Greta Van Fleet sono davvero l’unica speranza per il rock? La risposta è sì. Sì, se credete che questo genere musicale si sia fermato negli anni Settanta (o, al massimo, negli anni Ottanta) e in macchina vi pompate a rotazione solo dischi dei Guns, degli AC/DC e degli Aerosmith. Questo, in sintesi, per dire che presentare questi ragazzi – c’è da essere onesti, incredibilmente talentuosi – come dei messia mandati da chissà dove per salvarci da un’invasione apocalittica di trap boys e cantanti indie non rende giustizia a nessuno. Operazioni di ritorno al passato sono inevitabili in qualsiasi forma d’arte, e la musica rock, lo sappiamo bene, è fatta di eterni ritorni.

Ma, e questo è un grosso ma, il primo lavoro della band, Anthem Of The Peaceful Army (2018), si è dimostrato essere un disco tanto ambizioso sul piano esecutivo quanto modesto su quello compositivo: tutti gli elementi che lo compongo gridano sguaiatamente, come un Robert Plant nella sua forma più smagliante, un solo nome: Led Zeppelin. In pratica, un lavoro eccessivamente derivativo. Intendiamoci, non ce l’ho né con i fenomeni di revivalismo né con le band epigonali, io stesso mi diverto un mondo ad ascoltare gli Airbourne, che in fondo non sono altro che una brutta copia degli AC/DC. Il problema è che i Greta Van Fleet sono stati presentati come la next big thing del rock, a partire dai media, passando per gli addetti ai lavori, fino ad arrivare al grande pubblico. Per questi motivi mi sono avvicinato con molta diffidenza, forse anche troppa, a The Battle at Garden’s Gate. Come c’era da aspettarsi, il quartetto di Frankenmuth cerca di affrancarsi dall’ombra del grosso dirigibile Zeppelin, per provare a splendere di luce propria. E un altro tipo di luce sembra splendere sonoramente quasi per tutti i dodici brani, elevando la materia sporca e oscura del rock, a partire dalla power ballad The Heat Above, in cui il massiccio uso di organo Hammond e la voce di Josh ci trasportano in un’atmosfera sacra. La stessa cosa succede, con una climax più calibrata, in Broken Bells (e i più maliziosi penseranno subito ad una certa Stairway to Heaven). Ma non è necessario andare troppo nello specifico, questo tipo di sensazione si respira quasi per tutto il disco, come se la tensione fra sacro e profano stesse alla base del discorso compositivo: un amalgama di chitarre acustiche, chitarre elettriche, tastiere e voci idilliache viene a costruirsi in un discorso di fondo abbastanza coerente.

E come c’era da aspettarsi ancora di più, la presenza dei Led Zeppelin si sente ancora, sottesa in tutti i brani, e pronta ad emergere all’improvviso (Built by Nations, Light My Love). Un’altra influenza massiccia è sicuramente data dalle sonorità dei primi Rush, lo vediamo particolarmente in My Way, Soon Age of Machine. The Barbarians Trip the Light Fantastic ci mostrano due brevi ma interessanti capitoli psichedelici: nella prima troviamo un bridge con un cantato e chitarra di sapore orientale mentre nella seconda, sempre nel bridge, si viene trasportati in una dimensione che allo stesso tempo risulta lisergica e mistica. La produzione è di altissimo livello, gli arrangiamenti e le orchestrazioni non sono da meno e la tecnica di tutti i musicisti è sopraffina ma di fondo c’è un grosso problema: sul piano compositivo la band non riesce ancora a trovare una propria personalità, attingendo semplicemente dal passato, senza offrire una rielaborazione efficace e convincente dei propri modelli. The Battle’ at Garden’s Gate non sembra essere il cambio di passo auspicato dai Greta Van Fleet, una band che col secondo disco porta avanti una forma di revivalismo fine a sé stessa. E, torno a ripetere, ciò non è necessariamente un male, il disco è comunque un ascolto piacevole, ma francamente trovo eccessivo salutarli come la nuova rivelazione del rock o, ancora peggio, come ultimo baluardo della buona musica.