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Quentin Tarantino fa bene a lasciare il cinema nel suo momento migliore?

Tarantino ha ribadito in una recente apparizione televisiva, ospite al salotto dell’amico Bill Maher, che dirà addio al cinema dopo il suo prossimo film, il decimo di una carriera trentennale apertasi con Le Iene nel 1992. Alla vox populi «sei troppo giovane per smettere, sei ancora al top», come d’altronde dimostra il suo ultimo successo C’era una volta… ad Hollywood, egli risponde che vuole mollare «perché conosco la storia del cinema e da qui in poi i registi non migliorano». Quello di Tarantino non vuole naturalmente essere un postulato scientifico della settima arte ma può comunque essere un ottimo spunto per riflettere su cosa sarebbe potuto succedere se alcuni dei più grandi registi del passato avessero deciso di smettere all’apice, dopo aver toccato il cielo con un dito. Per i registi della Hollywood classica come John Ford, Howard Hawks e Frank Capra fare trenta, quaranta o cinquanta film era la normalità, basti pensare che se avessimo deciso di limitare a dieci pellicole il genio cinematografico di un loro illustre contemporaneo, l’inglese Alfred Hitchcock, quest’ultimo non avrebbe fatto neppure in tempo a trasferirsi in America e produrre così tutti quei titoli che gli avrebbero poi permesso di ottenere l’etichetta internazionale di maestro del brivido.

Difficile identificare un apice evidente anche in due maratoneti della cinepresa come Clint Eastwood e Woody Allen, carriere più che sessantennali che sembrano – animate da un moto perpetuo – non potersi mai esaurire. Kubrick dopo la doppietta 2001: Odissea nello spazio ed Arancia Meccanica e superata quota 10 ha regalato al mondo altre perle come Shining, Full Metal Jacket ed Eyes Wide Shut, Coppola dopo due “Padrini” ha girato Apocalypse Now, il bambino prodigio di Hollywood Steven Spielberg se fosse stato sazio de Lo Squalo, E.T. ed Indiana Jones non avrebbe donato al mondo Schindler’s List ed il franchise Jurassic Park, rispettivamente il suo 15esimo e 14esimo prodotto cinematografico. Scorsese dopo aver lasciato in eredità al mondo la sua straordinaria collaborazione con Robert De Niro (Taxi Driver, Toro Scatenato, Quei bravi ragazzi…) non avrebbe mai conosciuto Leonardo Di Caprio e prodotto pellicole come Gangs of New York, The Departed, Shutter Island e The Wolf of Wall Street, tutti ben oltre la decina. Di Brian De Palma invece non avreste mai sentito nominare nessuno dei suoi tre lavori più noti: Scarface, Gli Intoccabili o Mission Impossible.

Anche molti registi della nuova leva hanno già scavalcato la perfetta, tarantinianamente parlando, quota dieci. Se avessero seguito le orme di Tarantino già lo scorso anno non avremmo avuto modo di osservare nelle sale nè TenetMank, undicesima pellicola sia per Christopher Nolan che per David Fincher. Forse ha ragione Tarantino, da un certo punto in poi i registi non migliorano, ma si contano sulle dita di una mano quei registi che, come lui, debuttano con successi del calibro di Le Iene e Pulp Fiction e, nonostante il clamore quasi opprimente che da subito li circonda, sono in grado di rimuovere ogni traccia di “bassi” dalla propria produzione artistica mantenendosi, quasi fosse un Peter Pan della cinepresa, sulla cresta dell’onda (Kill Bill, Django, Bastardi senza gloria) anche a distanza di trent’anni. Il genio registico originario di Knoxville non si è reso conto che egli è proprio l’eccezione che confermerebbe la sua regola.