dark mode light mode Search Menu
Search

Giorgio Poi ha racchiuso gli ultimi due anni della sua vita in un album

Qualche attimo prima di fare tap sulla cornetta verde, posso vedere oltre la finestra davanti a me un cielo terzo, grigio. Sembrerà strano ma a me giornate come queste non fanno stare male, anzi mi tranquillizzano. Un po’ come Gommapiuma, il nuovo disco di Giorgio Poi, che non ho ancora capito se sia un album sulla pace interiore o sulla disillusione. «Non è esattamente frutto di una pace interiore, ma della ricerca di una pace interiore. Avevo voglia di costruire delle fondamenta sonore che mi mettessero a mio agio e in uno stato di assoluta serenità. Questa morbidezza che mi culla, e che per certi versi è richiamata dal titolo del disco, mi ha permesso poi di arrivare alla fase di scrittura», dice.

In che momento della tua vita arriva Gommapiuma?
Il disco nasce durante il primo lockdown e si sviluppa attraverso tutto il periodo di chiusura. Vede la luce in un momento in cui invece mi sembra che ci sia quantomeno un barlume di speranza.

Un altro contrasto importante che ho trovato in Gommapiuma è l’alternanza di ambientazioni intime, come il letto, e alcune più “esterne”, come il supermercato.
Quando scrivo non parlo solo di presente, ma tiro fuori dal bagaglio anche esperienze passate. Tuttavia questo disco racconta sia quello che vivevo quotidianamente mentre lo scrivevo, sia fatti che mi erano rimasti impressi. Il letto, ovviamente, era lo spazio di quel presente, il supermercato era quello che ospitava i miei ricordi passati. A tutto questo si aggiunge una dose di immaginifico. Dunque non è un disco di cronaca in senso stretto, ma è certamente un disco di cronaca emotiva. Ad esempio l’evento associato al supermercato è abbastanza particolare: stavo ascoltando in cuffia un certo disco mentre facevo la spesa e giravo tra i corridoi, fino a perdermi completamente in quegli scenari sonori. È stata una sorta di ipnosi che ho voluto raccontare nel mio disco.

Ci hai fornito una descrizione tattile. Se invece dovessi associare un colore al tuo disco, quale sarebbe?
Probabilmente proprio l’azzurro della copertina realizzata da Gio Pastori. In generale la parola chiave è “accoglienza”, credo sia il disco più accogliente della mia carriera, e quell’azzurro, secondo me, lo racconta bene.

Ho la sensazione che la scena musicale stia combattendo le regole del pop radiofonico. Vengono pubblicati concept album e sempre più spesso ci si imbatte in brani con strutture particolari o interludi strumentali. Tu stesso hai fatto una title track quasi ambient. Che ruolo ha per te la libertà artistica?
Beh, ognuno fa ciò che sente giusto per sè in quel momento. È già abbasta difficile capire cosa si voglia fare in un determinato momento che addirittura porsi altri limiti cercando di immaginare cosa possano volere altri renderebbe ancora più complicato il processo di creazione. Credo che addirittura certe domande, nello scrivere, un artista non debba porsele. Io non so nemmeno se del mio disco verranno ascoltati solo i singoli o tutta la track list seguendo l’ordine che gli ho dato. Ad ogni modo non sono un integralista in tal senso: il disco è diviso apposta in canzoni, quindi accetto che ognuno decida di fruirlo con l’ordine e le modalità che ritiene più opportune. Ogni canzone anche singolarmente ha un suo senso, poi certo che ogni brano è inserito in un viaggio che sarebbe bello potesse essere fatto in modo completo.

Oltre ad essere un cantautore, sei un producer. Cosa ascoltavi durante la genesi del disco?
Ho ascoltato prevalentemente musica strumentale, non so perché. È la prima volta che realizzo di aver avuto ascolti per lo più jazz, in particolare i brani di John Coltrane col sax soprano, che infatti ho comprato e suonato nel disco, ma anche brani pianistici, principalmente di Bill Evans tra i moderni e Debussy o Chopin tra i classici. Tutte cose che mi mettevano di umore pacifico con il mondo (ride ndr.).

Chi è il producer migliore della scena musicale internazionale?
Difficile a dirsi, ma credo che stringendo all’osso Kevin Parker (frontman dei Tame Impala ndr.) sia sempre la risposta giusta ad ogni domanda sul sound. Sarebbe un sogno lavorare con lui, anche se sono cosciente che questa collaborazione sia più vicina alla dimensione dell’onirico che del reale.

I dischi sono sempre più pieni di featuring, ma tu ne hai sempre scelti pochi ma buoni nella tua carriera. Come è stato lavorare con Elisa?
È stato un onore ospitarla nel mio disco. Avevamo un appuntamento per marzo 2020, poi per ovvi motivi è stato impossibile incontrarci. Durante la stesura del disco avevo in testa questa idea di introdurla al mondo musicale di Gommapiuma e ho iniziato ad ipotizzare un brano che potesse rappresentare un punto d’incontro tra le nostre visioni musicali.

E ne è uscito Bloody Mary.
È un pezzo di cui sono molto soddisfatto.

Qual è la tua più grande paura?
Da esorcizzare c’era moltissimo quando lavoravo a queste canzoni. Vivere distante dai miei affetti mi ha fatto stare malissimo. Mi sentivo letteralmente in trappola. Questa paura ha lasciato un segno indelebile, perché è come se avessi conosciuto, oltre che sperimentato, un nuovo pezzo della mia esistenza e dunque questa cicatrice resterà lì a ricordarmi che la lontananza esiste e va combattuta vivendo al massimo i propri legami con i propri cari quando se ne ha la possibilità.