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Pop Punk’s Not Dead, ed è anche merito di Naska

Diego il ragazzo sensibile o Naska il cazzone? La star di Twitch o l’artista maledetto? Semplicemente: entrambi.

Elvis, Sid e Nancy, i Sum 41, i Blink-182, Nevermind the Bollocks, Nevermind (e basta), i Green Day e Arancia Meccanica di Kubrick. Questi i poster che vedo alle spalle di Diego quando mi raggiunge su Zoom. Li conosco già per due motivi; primo, Diego fa le sue dirette Twitch dalla sua stanza – secondo, il suo nuovo disco si chiama La mia stanza e in cover, alle spalle di Diego (nudo, con il parental advisory che copre quel che dev’esser coperto) ci sono proprio quegli stessi poster, seppur rivisitati con il volto dei protagonisti photoshoppato e sostituito con quello dello stesso Diego e, in Nevermind, con quello di Simone Panetty. Alcune di quelle copertine sono anche presenti nella nostra chat di WhatsApp, dove abbiamo parlato di tante cose, non tutte rivelabili qui. Quel che però possiamo senz’altro svelare delle nostre conversazioni, è la comune passione per Something in the Way brano di cui ha estrapolato la celebre frase “It’s okay to eat fish because they don’t have any feelings” per farci un dipinto. Per darvi qualche dettaglio in più: c’è uno sfondo verde acqua e, in primo piano, al centro, un pesce. Non parliamo di Caravaggio o Cimabue (non me ne voglia l’autore) ma questo mi dà il là per ripercorrere con lui il periodo del liceo artistico. «Dopo l’esame di maturità, di comune accordo coi miei, mi sono trasferito a Milano con l’intento di trovare la mia strada nel mondo della musica. Mamma sapeva perfettamente che non mi trasferivo per segnarmi all’Università e tutto sommato era felice che ci provassi, purché riuscissi a mantenermi da solo. Mio papà anche era felicissimo e, essendo lui un musicista, non avrebbe in ogni caso potuto opporsi in modo credibile alla mia scelta», mi racconta.

«All’inizio è stata durissima perché ero sotto contratto con una etichetta che mi imponeva di mantenere un impianto sonoro smaccatamente trap, mentre io volevo già allora le batterie punk, ma fortunatamente poi sono tornato indipendente con una rinnovata energia. È lì che ho aperto i primi donation goal su Twitch. In pratica, grazie a delle piccole donazioni, riuscivo pian piano a pagarmi mix e master oppure il videoclip, ad esempio. In tal senso la nostra – quella mia e della community – è stata a tutti gli effetti una vittoria collettiva. Anche perché poi quei piccoli traguardi mi hanno spinto a fare sempre di più ed alzare l’asticella. Ed ora eccoci qua, arrivati al secondo disco». Gli chiedo se ha ansia per l’uscita. «Sì, ce l’avevo anche per Rebel (il suo disco d’esordio ndr.) solo che in quel caso avevo un po’ paura che quel genere potesse non essere capito fino in fondo. Oggi vado più sereno da quel punto di vista perché è chiaro che la mia identità ormai è definita». Andrà bene, ne sono sicuro perché è un disco ben fatto – gli dico, non ricordandomi che quasi tutti in Italia, ma specie gli artisti, sono molto scaramantici. E così, con la discrezione di una rockstar, si tocca sotto la vita spostando la camicia a righe Supreme. Ha ragione, avrei fatto lo stesso anch’io (chi mi conosce sa quanto sia scaramantico) per cui ci mettiamo a ridere entrambi per la scena. È tutto così naturale quando si parla con Diego, che le formalità vanno a farsi fottere. La mia stanza è un album molto coerente, diviso in ballad (A nessuno, Cattiva, Male, Wando) e momenti più punk (Non me ne frega un cazzo, Pronto soccorso, Fottuto sabato, Fuori controllo) e ciò mi fa riflettere sul fatto che in questi anni i concept album siano tornati di moda – da Persona in poi, si è riaperto un filone che era praticamente scomparso da anni e anni.

A me i concept album fanno impazzire e trovo che sia bellissimo quando tutto in un progetto parli la stessa lingua e in cui ci sia un viaggio coerente che parte con la prima traccia e si concluda con l’ultima. Diego invece è di un altro avviso: mi spiega che per un artista è molto limitante mettersi paletti così definiti in fase di genesi del disco, per cui gli chiedo quando è nato il concept de La mia stanza. «Non penso mai al concept di un disco prima di scriverlo. Il concept della stanza infatti è arrivato che per tre quarti l’avevo finito di registrare. Ero proprio qui, dove poi nascono tutte le mie canzoni. Ero in cerca di ispirazione e guardandomi intorno ho pensato che la mia stanza contenesse e raccontasse meglio di qualsiasi altra cosa le mie due anime: quella di Naska – il cazzone che non pensa troppo alle conseguenze delle sue azioni – e Diego – il ragazzo fragile ma anche più maturo che soffre per amore e si sofferma sul lato introspettivo delle cose. Ora qui vedi una mensola tutta ordinata, ma alla mia destra c’è un angolo coi vestiti sporchi dove butto tutto disordinatamente. E poi mentre ascoltavo questi primi brani che già erano pronti, prendevo atto del fatto che si trattasse di un percorso personalissimo, in cui in nessun caso si tentava di mostrare qualcosa di distorto». È infatti un ritratto realista quello offerto da Naska nel suo disco. C’è sempre un fatto scatenante, una scintilla, che poi diventa un brano ed infine arriva ad essere un momento collettivo quando viene suonato live. E chissà qual è stata la scintilla che ha mosso Diego a costruire musica, fin da piccolo. Probabilmente il fatto di essere membro di una famiglia di musicisti ha aiutato.

«Come ti dicevo, mio papà suona da sempre musica per opere, ma prima ancora era un dj ed è per questo che casa mia è sempre stata piena di vinili. Calcola che mi racconta mamma che quando era incinta papà le metteva le cuffie sulla pancia e mi faceva ascoltare Elvis», mi dice. «Quel quadro di Elvis che vedi lì in fondo è il primo che ho messo. Ce lo avevo anche nelle mia camera nelle Marche». Sono molto incuriosito dalla figura del papà di Diego, per cui cerco di approfondire e gli chiedo qualcosa sul suo progetto, che poi scopro essere invece quattro: «Mio padre ha toccato tanti mondi musicali – mi dice –  all’inizio la new wave tipo Depeche Mode, perché aveva una band dove facevano inediti di quell’ispirazione lì, dopo ha iniziato a fare cover di Fred Buscaglione, poi ancora Paolo Conte, fino ad arrivare all’attuale progetto, in cui prende brani cult anni Sessanta italiani e li suona in chiave balcanica, tipo gipsy». Gli dico che sarebbe figo vederli suonare insieme. «Spero questa cosa possa succedere un giorno», mi risponde. Mentre mi racconta di suo padre, a Diego si illuminano gli occhi, a testimonianza che in qualche modo i suoi genitori sono stati i suoi primi fan, il che è un vessillo da sfoggiare con fierezza, visto che di norma i genitori propendono per il «vatti a cercare un lavoro vero». La sorella di Diego invece ha una band punk. Insomma tutto parla la lingua della musica in casa Caterbetti (il suo vero cognome).

In un attimo mi torna alla mente la chiacchierata che ci facemmo tempo e di quanto si finisse inevitabilmente per parlare del peso che gli States, ma in generale l’America, abbia avuto sul suo percorso: da American Pie ai Nirvana, passando per Elvis ed il cinema Hollywoodiano – tra l’altro alle sue spalle c’è anche un piccolo E.T. ed uno squalo che omaggiano il maestro Spielberg. Allora mi faccio raccontare del suo viaggio in America. «Ci ero stato per la prima volta ad Halloween, a New York. Quella città vista da un europeo della nostra età è un po’ come entrare in un set di Spider-Man. Poi quando invece dovevo girare il video di A testa in giù, e mi hanno comunicato che c’era un po’ di budget per la promo, mi son detto: perché sputtanarlo? Andiamo a vedere la casa di Elvis a Memphis». E così, in due giorni, abbiamo preso i biglietti e siamo andati alla ricerca di Elvis a Graceland attraverso i luoghi sacri della sua vita: dai Sun Studios a Main Street». In conclusione: non so dirvi se “è okay mangiare pesce perché loro non hanno i sentimenti”, ma di certo è okay ascoltare Naska, perché lui, sotto l’involucro da star dell’eccesso, i sentimenti ce li ha, eccome.