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Con Sinéad O’Connor se ne va l’anima più pura della musica

Il potente messaggio di Sinéad O’Connor risiede nella sua classe, ruvida ma gentile. Un resoconto sull’eredità di un’artista immortale

Tra le questioni che rendono impossibile per agnostici ed atei l’idea di Dio c’è senz’altro il tema del miracolo. Un fatto sconnesso dalle regole precostituite, un gesto ingiusto poiché in grado di violare il contratto controfirmato dalle parti (gli esseri viventi e madre natura) per fare una eccezione. Eppure i miracoli esistono, ed uno dei più lucenti e maestosi è sicuramente la glorificazione post mortem di una persona. Che tu sia stato il più insensibile o il più crudele degli esseri umani, in punto di morte l’odio dei più si dilegua come particelle nell’aria. Se poi a morire è Sinéad O’Connor, non c’è proprio speranza che tutte le grandi gesta fuori e dentro quello spazio vitale che per lei è stato lo stage, possano essere in qualche modo dimenticate. E poi Nothing Compares 2 U, la cover di All Apologies di Kurt Cobain, e altre millecinquecento cose.

Se però la si è amata fino in fondo, se si vuole render giustizia al personaggio politico che è stata quella ragazza coi capelli cortissimi, se si vuol rendere giustizia a quegli occhi buoni e persi, a quell’espressione distesa e pure, a quella bocca – ora serrata, ora spalancata – in entrambi i casi, comunque parlante, mettersi a ricordare solo gli applausi, sarebbe oggettivamente troppo poco. Perché quello è il trattamento che destiniamo ai comuni mortali durante le camere ardenti. Ma è evidente che Sinéad non risponde in alcun modo a questa categoria. E allora se dovessi provare a raccontare tutta l’essenza di questa ragazza e al contempo donna, di quest’anima fragile e al contempo fortissima, il primo pensiero va all’esibizione più controversa della sua carriera. È il 16 ottobre 1992. Siamo a New York, in quel Madison Square Garden il cui nome fa sempre un po’ paura, figuriamoci ad una ventiseienne mingherlina che è lì insieme ad alcuni degli artisti più importanti di sempre per celebrare il cantautore (quello senz’ombra di dubbio) più importante di sempre. Si festeggiano i trent’anni di carriera di quella burbera testa di cazzo che qualche tempo più avanti diventerà il primo musicista a vincere il premio Nobel. Ovviamente non lo ritirerà. Non credo sia necessario neanche enunciarlo… abbiamo capito tutti di chi sto parlando.

E allora ecco che Kris Kristofferson la presenta: «Ladies and Gentlemen, Sinéad O’Connor». Il boato del pubblico entusiasta si mescola, poi si perde del tutto, in un ruggito scuro e animalesco. Una ragazza nel pieno dei suoi vent’anni dal viso gentile, senza capelli, vestita di una giacca color blu di Persia, che la rende qualcosa a metà tra un angelo ed una figura mistica proveniente chissà da dove – chissà perché, si avvicina al microfono. È come se corresse controvento, opponendosi al muro di fischi. Eppure arriva ad un palmo dal microfono. Si ferma. Dovrebbe cantare War di Marley ma resta ferma, immobile, ammutolita. Li guarda in faccia, tutti quanti ma non li sfida. L’assenza del gesto è essa stessa il più efficace dei gesti. La band starebbe per iniziare, con un arpeggio alla chitarra, con un accompagnamento al piano, ma no, lei non fa nulla. Passano due interminabili minuti (oggigiorno il tempo di una canzone) e poi chiede alla band di fermarsi. Si avvicina al microfono e fa l’unica cosa possibile: un gesto da fuoriclasse, una di quelle cose che sarebbero precluse a tutte, perfino ad una che ha strappato durante una esibizione televisiva la foto di Giovanni Paolo II.

Inizia a recitare il testo di War, urlando un canto ruvido, a cappella, come Scilla tra le onde dello Stretto. Ma le onde della marea di fischi, una volta incontrato lo scoglio, non può far altro che riprovare, ancora e ancora, senza successo. Fino ad arrendersi. Fino a retrocedere. Quello scoglio celeste, incazzato, violento si toglie le In-Ear e continua a gridare. Il testo – molto più di queste mie disarticolate parole – racconta l’essenza di chi sia stata Sinéad O’Connor e ci delucida inequivocabilmente sul perché nessuno di noi in fondo l’abbia mai capita e meritata abbastanza: «Finché la filosofia che sostiene che una razza sia superiore e un’altra inferiore non verrà finalmente e permanentemente messa in discredito e abbandonata, ovunque ci sarà guerra. Fino a quando non ci saranno più cittadini di prima e seconda classe in qualsiasi nazione, fino a quando il colore della pelle di un uomo non avrà più importanza del colore dei suoi occhi, io dico guerra».