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Kate Klein, l’arte di rompere le gabbie

Dall’estetica di Tim Burton al punk-rock. Abbiamo intervistato Kate Klein: la voce ribelle che sfida gabbie e stereotipi

Accanto al famoso Ronny Scott Jazz Bar e tutti i locali gay di Dean Street c’è il Mimi Hotel: uno speakeasy del proibizionismo stile New York anni Venti situato nel cuore di Soho – la zona Londinese dove hanno debuttato i Rolling Stones, The Who, Led Zeppelin, David Bowie. Quando ci sentiamo Kate è seduta proprio lì con le sue due codine e ciuffi fatti dritti come spaghetti con la cera. Sta bevendo un Hendricks su tumbler basso con una fetta di cetriolo e tutta la movida di Soho attorno. Indosso ha una maglia nera con scritto ‘’fuck the flame’’ e una gonna nera piena di spille da balia e catene. Ai piedi delle Buffalo. Mi esce un «hai una estetica pazzesca, Kate. Quasi burtoniana». Lei sorride.
«C’hai beccato in pieno, sono innamorata follemente di Tim Burton. La cosa ancora più folle è che abita dietro casa mia a Londra. All’inizio la tentazione di andare a suonargli era forte. Se la mia vita fosse un film sarebbe un mix tra Alice in Wonderland e Suicide Squad. Penso perché nella vita mi sento un po’ ragazza normale e supervillain allo stesso tempo».

Che poi i tuoi pezzi sarebbero perfetti per la colonna sonora di un film o di una serie tv. Magari nella scena in cui il protagonista sta nel bel mezzo di un viaggio lisergico. Ti piacerebbe un giorno scrivere un brano per il cinema?
Amo questa domanda, amo il cinema, amo la sceneggiatura e la regia. Ho studiato sceneggiatura a Roma una volta finita la scuola e quel mondo coesiste con la musica da sempre. Sarebbe un sogno scrivere musica per film, tipo Superhero o avventura delirante tipo Paura e Delirio a Las Vegas o Pulp Fiction. O magari una serie tv alla Skins.

In tal senso i tuoi videoclip sono sempre molto curati. Da dove nasce il visual 3D di Milano sei tossica?
Passo un sacco di tempo dietro alla produzione per dare l’idea giusta. Con Milano sei tossica, volevo ricreare una versione di Milano diroccata, dark un po’ zoombesca. I ragazzi di Tomacco Studio l’hanno spaccato. Sono stati bravissimi.

C’è un reel che hai pubblicato tempo fa in cui il tuo brano Milano sei tossica fa da sfondo ad un monologo in cui leggi una pagina di diario. In un passaggio dici “mi sento come in una gabbia dorata dalla quale non riesco ad uscire”. Poi però aggiungi che in realtà nemmeno esiste questa gabbia. A cosa ti riferisci?
Milano sei tossica è la similitudine di un amore tossico. La gabbia dorata è riferita alla mia ultima storia dove mi sentivo chiusa in una gabbia dorata. Questo amore assurdo che avevo idealizzato in testa fatto di momenti da film stile Bonnie & Clyde, tramonti da panico, piani per il futuro, l’idea che mai finirà e poi il rovescio della medaglia, l’effetto collaterale, la tossicità dalla quale non riesci a liberarti. Una gabbia dorata che resta pur sempre una gabbia. Ma questa gabbia non è reale, esiste solo nella nostra mente. In realtà sei libero di uscirne quando vuoi… come Milano d’altronde.

Ti sei fatta un’idea di cosa sia necessario per uscire da questa immaginaria
gabbia dorata?

Amor proprio e dedicarsi a sè stessi. A volte quando si cresce in famiglie disfunzionali, si fa fatica a capire quando una situazione è giusta o sbagliata. Quindi ci vuole tempo di processare e capire che la vita è una, e la felicità è una scelta. Ma si impara. A volte ci rimango male perché magari mi sono lasciata ingannare o perché non ho capito le cose prima. Ma il punto è che ciò può accadere a chiunque, anche ai più forti. Io ero quella del ‘’col cazzo che perdo tempo dietro a gente che non mi merita…’’ e poi succede. Ma alla fine ci penso e capisco che non si può vivere sempre in allerta su quello che fa la gente sennò smetti di vivere. La vita va avanti e le cose importanti ora – tra dieci anni – non avranno importanza. Così si esce dalla gabbia dorata secondo me, ricordandosi che un giorno tutto ciò non avrà più importanza e che la vita è una mia scelta.

Si dice spesso: “vivere male per scrivere bene”. Sei d’accordo? A volte essere in quella gabbia ti aiuta ad essere più stimolata nella scrittura?
Eh già, il paradosso dell’artista. Il chaos è il nostro segno zodiacale.

Essere una rockstar, soprattutto se dell’ecosistema punk, può essere difficile perché magari si può tendere ad essere vittime del proprio personaggio. A te capita mai? Quanto si discosta la Kate artista dalla Kate persona?
Hai beccato in pieno. Questa dinamica si riscontra soprattutto nel punk, dove per essere ‘’edgy’’ devi essere a tutti i costi ‘’sesso con tutto e tutti, droga e pizza da un euro’’. Se non fai ciò non sei punk. Non sto dicendo che sia sbagliato ma quando è forzato stona. Io preferisco mantenermi più svincolata da generi e immagine. Se mi gira la settimana prossima scrivo un pezzo country e faccio un video dove vado a cavallo con una collana di margherite. Lo stile di scrittura, stile vocale e quel tocco dark colorato della mia estetica è abbastanza per mantenere il brand coerente per me. E sì, Kate artista è la stessa della realtà. Parlo in modo un po’ strano, faccio discorsi esoterici e parlo spesso dell’universo e il senso della vita con dark humor che a volte prende male alla gente. Comunque in passato volevo crearmi un personaggio perché in un certo senso dà senso di protezione. Ma ho abbandonato l’idea praticamente subito.

Un noto artista disse una volta che il punk è il genere degli inquieti e degli “incazzati”. Cosa è che più ti rende inquieta e cosa ti fa incazzare di più?
Inquieta… (ci pensa un attimo, spostando lo sguardo sulla destra, nel vuoto, ndr.). La natura dell’essere umano e la spietatezza della natura. Mi fanno incazzare i media pagati dai governi e le marchette discografiche.

Hai viaggiato molto. States, Regno Unito, Italia. Essere in un posto diverso, in un momento diverso, ti rende una persona (e una artista) diversa?
Questo posto (Londra, ndr.) mi ha forgiata e fatto rendere conto che al di fuori dell’Italia c’è un mondo che vive e pensa diversamente. Tipo ora mi fa strano che in Italia si dia ancora un sacco di attenzione all’estetica, e c’è questa idea che la donna vale solo per la sua bellezza. Cresciuta con le Veline e tutto quel mondo, pensavo fosse così anche altrove e invece no. Poi c’è l’America che mi ha rubato l’anima. La mia anima tuttora si trova a Lower East Side a New York. Ho imparato a scrivere canzoni da gente che stimo un sacco a Los Angeles. Mi hanno insegnato a registrare, fare i mix, produzione vocale, lo story-telling. Per sempre grata…

Qual è in definitiva il tuo rifugio sicuro, la tua zona di comfort?
Il mio studio di registrazione qui a Londra, senza dubbio.

In una nostra intervista a Glen Matlock dei Sex Pistols gli chiesi se secondo lui la musica fosse ancora oggi la voce di un cambiamento sociale. Visto che tu sei figlia in parte della musica di cui lui è stato una sorta di padre fondatore, lo chiedo anche a te: la musica può ancora cambiare il mondo?
Secondo me si… con tanto coraggio di essere sé stessi in un modo fatto di algoritmi!