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James Blake a Milano, la tempesta dopo la tempesta

Mi chiedo se assistere alla tempesta pomeridiana e trovare il modo di essere lì ci abbia reso in realtà più pronti ad entrare nel mondo di James Blake, ai suoi sbalzi atmosferici

Arrivare al Fabrique lunedì è un’impresa: allo sciopero nazionale dei mezzi pubblici che già di per sé avrebbe complicato il percorso per i più si è sommato un temporale, una bomba d’acqua che nel tardo pomeriggio si è piuttosto letteralmente abbattuta su Milano. In condizioni normali, le premesse sarebbero perfette per desistere da qualsiasi tentazione di trascorrere la serata fuori, ma a giudicare dalle facce che si vedono in fila per entrare al concerto, per chi nonostante il colore ancora minaccioso del cielo si è avventurato verso il Fabrique, la fatica fatta per esserci non ha minimamente intaccato l’umore. Un signore di una quarantina d’anni mi si rivolge in inglese perfetto e mi domanda prima se il biglietto va tirato fuori subito o solo una volta entrati e poi se è sempre così difficile spostarsi a Milano. Io gli sorrido tentando di indovinare da dove viene (direi sud dell’Asia, ma non ci metterei la mano sul fuoco) e gli dico che ha semplicemente avuto sfortuna.

James Blake a Milano, foto di Francesco Prandoni

Quando però James Blake si siede al pianoforte e intona l’inizio di Asking to Break in mezzo a una serie di sintetizzatori dissonanti, mi chiedo se si tratti effettivamente di sfortuna. Mi chiedo se assistere alla tempesta pomeridiana e trovare il modo di essere lì nonostante le difficoltà logistiche abbia in realtà reso noi del pubblico più pronti di quanto non saremmo stati altrimenti a entrare nel mondo di James Blake, alle sue variegate personalità artistiche, ai suoi sbalzi atmosferici. È un pensiero laterale, questo, su cui sul momento non ho il tempo di soffermarmi. Quando, però, mi ritrovo in strada a concerto finito non posso fare a meno di ripensarci, a come il contesto in cui lo stesso si è svolto me lo abbia reso vicino e immediato nonostante di immediato nella musica di James Blake non ci sia niente. Il filo conduttore dello show è infatti indubbiamente il contrasto. Lo è nella produzione musicale in sé: la sua voce, così pulita e armoniosa, viene spesso accompagnata da bassi distorti e batterie estremamente aggressive e upbeat.

Lo è nella scaletta: il concerto – come per la verità l’intera discografia di Blake – ha chiaramente due facce che si alternano e per certi versi inseguono, quella del James Blake producer, che con il suo DJ set tra house e dubstep fa ballare tutto il pubblico, e quella del James Blake cantautore, che si mette al pianoforte e con precisione magistrale ma ferma delicatezza riempie l’intera sala con la sua voce clamorosa. Lo è infine nella scenografia: James Blake trascorre tutto il concerto seduto al pianoforte sulla parte destra del palco, non alzandosi o muovendosi mai, mentre tutto intorno – sia a livello di suoni che di luci – si muove, cambia, si svuota, si riempie. Lui, con calma regale, dà l’impressione di controllare ogni cosa, ogni cambio di luce, ogni suono che entra improvvisamente nella base, ogni sintetizzatore, ogni batteria. Ci vogliono un carisma e una personalità musicale di livello altissimo anche solo per concepire uno show del genere. James Blake ne sostiene il peso con naturalezza irrisoria.

James Blake a Milano, foto di Francesco Prandoni

Così, in un saliscendi di emozioni, con DJ set che si alternano a ballad al piano, batterie che lasciano spazio a synth dissonanti, e un’intensità che anche nei momenti in cui ci sono meno suoni non accenna mai a scendere, trascorrono quasi due ore di concerto. Oltre al nuovo disco – eseguito pressoché nella sua interezza per la prima volta, dato che si tratta del primo concerto del tour – sono memorabili le esecuzioni di Limit to Your Love e Retrograde, due delle sue canzoni più famose. Il momento più alto è però la successione di Godspeed di Frank Ocean e I Want You To Know, tratta dal nuovo disco, che è dedicata al padre e che lui esegue con una presenza emotiva particolarmente. Alla fine, si ha l’impressione di aver vissuto un’altra tempesta, ma questa volta perfetta. D’altronde, quando l’arte riesce a portarti in un altro mondo senza lasciarti dimenticare la realtà, cosa puoi chiederle di più?