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James Blunt: «Volevo fare la rockstar»

James Blunt torna con “Who We Used To Be”, un album-manifesto della sua generazione. «Avrei potuto fare le cose meglio e suonare negli stadi. Ma non ho rimpianti»

James Blunt parla con la prontezza di chi è abituato a sapere cosa dire e con la naturalezza di chi è abituato a essere ascoltato. È perfettamente a suo agio con qualsiasi argomento gli venga posto davanti, e alterna battute intrise di ironia prettamente british a frasi di rara incisività e sincerità che sono perfettamente riconducibili alla sua musica, personale ma con cui è facile empatizzare e relazionarsi. Mentre parliamo mi dà continuamente l’impressione che mi direbbe le stesse cose che mi sta dicendo anche se fossimo in un qualsiasi pub londinese davanti a una birra. Ascolta ogni domanda guardandoti negli occhi con genuina curiosità, come se sia tanto interessato alla domanda che sta ascoltando quanto tu alla sua risposta. Who We Used To Be, il suo nuovo disco, è il manifesto della sua generazione, quella di chi ormai ha fatto i conti con l’essere diventato adulto (il prossimo anno Blunt compirà cinquant’anni) e non può fare a meno di guardare alla giovinezza con un pochino di nostalgia.

Il titolo esprime esattamente questo: «Mi piace molto il feeling nostalgico che traspare dal titolo. Non c’è malinconia perché la malinconia presuppone tristezza, mentre io ho tanta speranza. Siamo a un punto in cui la giovinezza se ne sta andando e i sogni della giovinezza stanno scomparendo. La vita è breve, il tempo vola, se non agisci adesso perderai il treno». Gli chiedo se alla nostalgia filo conduttore del disco associa un qualche rimpianto, se farebbe le cose diversamente se tornasse indietro. «Faremmo tutti alcune cose diversamente – mi risponde sorridendo – Io sono stato fortunato, avevo un sogno e l’ho trasformato in realtà. È il sogno che mi aspettavo? In realtà no: volevo fare la rockstar e sono diventato una popstar. Avrei potuto fare le cose meglio e suonare negli stadi e non nei palazzetti. Ma non ho rimpianti». Durante la nostra chiacchierata, c’è spazio per il disco, ovviamente, a partire dalla copertina che lo ritrae da bambino mentre insegue un aeroplano su un prato fiorito. «La copertina è stata scattata da mio padre quando avevo dieci anni, nello Yorkshire. Ho scelto questa immagine perché cattura l’innocenza, quel tempo senza oscurità dell’infanzia. È quella la chiave di lettura del disco: questo è chi eravamo».

Parliamo quindi della sua infanzia, che a causa del lavoro di suo padre nell’esercito è trascorsa tra Hong Kong, Cipro, Grecia, Yorkshire, sud dell’Inghilterra: «Da piccolo sei robusto. Io ogni due anni mi spostavo e dappertutto trovavo amici a cui rimanevo legato per due anni massimo, e poi li salutavo. Ho decine di ex-migliori amici che non so che fine abbiano fatto, ma stavo bene». Parla poi della sua famiglia e in particolare di sua moglie, che «mi ha salvato da me stesso». La conversazione va poi a toccare il mercato musicale che mette gli artisti sempre più alla prova: «Si parla della morte degli album come di una cosa cattiva, ma forse non è così malvagia, perché io in quanto artista devo pensare a canzoni che possono sopravvivere da sole. Questo ci costringe a lavorare più duramente e dà agli ascoltatori ancora più musica di qualità». Il momento più commovente, però, è quando gli chiedo di Dark Thought, probabilmente l’episodio più struggente del disco. È l’unico momento della nostra chiacchierata in cui lo vedo esitare. Mi pare addirittura che gli occhi gli si inumidiscano un po’.

Il pezzo è dedicato a Carrie Fisher, attrice scomparsa nel 2016 a cui James era molto legato e da cui abitava nei lunghi periodi che trascorreva a Los Angeles per registrare. «Quando è successo, ho fatto molta fatica a processare la cosa, ma volevo tanto scriverle una canzone. È sempre difficile, perché ti chiedi cosa vorrebbe sentire se fosse qui. Non per niente ci ho messo così tanto. Poi l’ultima volta che sono andato Los Angeles sono andato a casa sua, ho messo la mano sulla maniglia e sono scoppiato in lacrime. La canzone è partita da quello», dice. Prima di lasciarlo, parlando dell’impatto della propria musica sul pubblico, dice la cosa che mi pare meglio rispecchi la sua personalità artistica: «Non so se la musica può cambiare il mondo ma so che lo può unire e in questo c’è qualcosa di magico». In tante occasioni, James Blunt ha fatto esattamente questo, e in tante altre lo continua a fare. Forse l’essenza dell’arte e della musica è tutta qui.