dark mode light mode Search Menu
Search

Motta, come superare la fine

Una lunga chiacchierata con Motta durante la quale ci ha raccontato come superare la fine, guardandola in faccia per ricominciare con nuovi stimoli

Ero con una amica che mi piaceva molto, quel giorno di fine marzo 2016. Faceva oggettivamente troppo freddo per rispecchiare l’effettiva data del calendario, me lo ricordo bene. Avevamo entrambi le labbra distrutte dalla tramontana e una cuffietta a testa nelle orecchie. Mi fece ascoltare Motta. Ora: sarebbe bello raccontarvi, con uno storytelling affascinante, di un primo approccio negativo che poi si trasforma in una storia d’amore senza tempo (parlo della musica di Motta, ovviamente – non dell’amica) ma la verità è che La fine dei vent’anni mi piacque subito. Oggi, che nel frattempo la fine dei vent’anni la sto vivendo sulla mia pelle, non solo capisco veramente quanto sia “un po’ come essere in ritardo”, ma ho l’opportunità di scambiare quattro chiacchiere con quel tipo che mi pare da sempre uno dei Ramones ma che musicalmente è senz’altro più un figlio del “banana album”. Nel mezzo concerti, dischi, colonne sonore, mille storie personali, ma alla fine – proprio perché non preparo mai una scaletta quando intervisto un personaggio che conosco bene – parto nel modo più prevedibile dell’Universo: Francesco, come stai? Mi risponde con un’altra domanda. «Quanto tempo hai? Potrei parlarti per ore di come sto». Glielo dico che starei lì ad ascoltare l’extended version della risposta per tutto il tempo necessario, ma la verità è che entrambi conosciamo le regole, quindi non possiamo. È lì che ride e riesco a rompere il ghiaccio. «Sto bene, soprattutto ora che è ripartito il tour. Mi sono goduto le prove e persino le interviste, perché ho di nuovo voglia di raccontare la mia musica, senza dar nulla per scontato».

Eppure La musica è finita è un disco ombroso, e sul tema spinoso della fine. «Sì ma guardarla in faccia, questa fine, è un antidoto per andare avanti. Ci sono due modi sostanzialmente per descrivere una fine: il romanticismo e la nostalgia. Questo non è in nessun modo un disco nostalgico, mentre i precedenti, per certi versi lo erano parecchio». Come detto non c’è nulla di preparato in questa intervista, ma a dire il vero c’è una domanda che, pur non essendo scritta su qualche foglio di fronte a me, è fissa in testa da anni. Penso sarebbe inutile fargliela visto che riguarda un parallelismo coi Radiohead che secondo me è stato interrotto con l’uscita de La musica è finita, ma nel flusso decido di spiegargli lo stesso ciò che credevo di aver capito sulla sua discografia e su quella di Yorke e soci. In pratica secondo me Pablo Honey ha un ruolo simile a La fine dei vent’anni, perché sono trascinati entrambi da due singoli iconici (Creep e la title track del disco di Motta). Poi arriva The Bends che come sound fa rima con Vivere o morire. Infine Ok Computer che con quelle suggestioni sonore mi pare in qualche modo riconducibile a Semplice. Ecco perché quando ho ascoltato in anteprima La musica è finita – chissà con quale assurda presunzione – ero certo di trovarmi davanti un disco di pura elettronica. E invece niente. «Madonna che cosa bellissima che mi hai detto, è la mia band preferita, ovviamente. Voglio tatuarmela questa cosa, mi hai cambiato la giornata. Che poi devi sapere che è il punto di contatto tra me e mia moglie (Carolina Crescentini ndr.), perché abbiamo gusti musicali abbastanza diversi ma poi alla fine un disco dei Radiohead è sempre lì a casa nostra per metterci d’accordo».

Per chi è fan della band di Thom Yorke quell’avverbio ”ovviamente” nella frase di Motta è difficile da spiegare. I discepoli dei Radiohead, per qualche strano motivo, semplicemente lo sanno che sono “la band”, non “una band”. Poi mi racconta la sua visione riguardo l’elettronica. «Non sono d’accordo sul fatto che questo disco non sia elettronico, anzi è proprio il disco più elettronico possibile per uno che come me ha sempre digerito poco certi strumenti e stilemi», mi dice. A questo punto non so se sentirmi stupido per non aver sentito tutta questa mole di elettronica nel disco oppure essere felice per aver saputo che dunque la mia teoria continua, e che, un giorno, avrò/avremo il disco fratello di In Rainbows ma firmato da Francesco Motta, il cui ascolto è forse una delle poche cose per le quali sperpererei seduta stante tutti i miei risparmi. Vada per la seconda opzione. Gli chiedo di più sulla sua concezione di elettronica. «Purtroppo non è molto facile incasellarla dentro qualcosa, secondo me. Però in linea di massima in questo disco ho accettato di utilizzare synth e drum machine praticamente per la prima volta. Sempre a proposito di elettronica, potremmo ritrovarne un po’ anche nei pezzi in cui ha collaborato Mauro Refosco – percussionista che ha lavorato anche con Thom Yorke e Atom for Peace». Gli confesso che anch’io ci ho messo un po’ a far pace con l’elettronica. E allora gli chiedo perché gente come noi ha dovuto fare uno sforzo per accoglierla. «Vedi, quando avevo diciotto anni ed entravo in un negozio di musica c’erano solo due grandi categorie: quelli che prendevano la chitarra e quelli che prendevano un synth. E generalmente le due fazioni non si sopportavano, perché erano proprio due scuole di pensiero agli antipodi».

Francesco è veramente preso da questo tema. Lo percepisco dalla sua voce baritonale e cupa, oltre che bellissima che improvvisamente alza i bpm. Tutto questo è interessante perché d’un tratto ci siamo ritrovati a parlare di ideologia musicale e di filosofia del suono. È sempre più raro intercettare una tale energia in una intervista oggigiorno, quindi – seppur la mia idea di elettronica alla Kid A risiedeva nell’estetica di brani come Everything Is In Its Right Place o Idioteque che secondo me non troviamo all’interno di La musica è finita – continuo a calcare la mano.

Che poi a pensarci bene, quelle vibes elettroniche le avevo già trovate a piccolissime dosi nella chiusura di Quando guardiamo una rosa (brano conclusivo di Semplice ndr.)
Sì, esatto.

Cosa hai ascoltato maggiormente negli ultimi anni, sempre nell’ecosistema dell’elettronica?
Amo molto gli Autechre e Labrinth che hanno ispirato il mio lavoro. Vedi, ultimamente ascolto più dischi di colonne sonore che album musicali. Oltre alla colonna sonora di Euphoria, anche quella del Suspiria di Guadagnino, curata proprio da Thom Yorke mi ha ispirato molto.

Ritengo che il tuo brano più bello mai pubblicato sia A te. Probabilmente perché è la cosa più vicina ai Velvet Underground che abbia mai ascoltato in lingua italiana, e io amo i Velvet (quando glielo dico, Francesco annuisce e mi racconta che è un brano a cui anche Jeremiah Fraites dei Lumineers è molto affezionato ndr.)
Lui si è innamorato inizialmente di Ed è quasi come essere felici ma poi mi ha detto che A te all’estero avrebbe fatto un grande successo.

Hai citato gli Autechre: la loro musica è incredibile e purtroppo non molto conosciuta in Italia. Pensa che in anni di interviste solo un’altra volta mi è capitato di parlare di loro. Ovviamente con Ginevra, che hai utilizzato un campione di Nine per la sua Oceano. Parlami di lei e del vostro brano.
Conoscevo Ginevra da tempo, ma non avevo mai approfondito. Poi ad una festa con gli amici durante il concertone del Primo Maggio mi sono imbattuto nella sua esibizione dallo smartphone. Tieni conto che in sottofondo c’era un DJ set, eppure sono rimasto sconvolto dalla sua performance e sono saltato dalla sedia. La cosa bella – una delle poche – di stare a Roma è che il concertone è proprio qui e dunque ho colto la palla al balzo e ho chiesto al mio manager di contattarla. Due giorni dopo era nel mio studio, dove è nata Maledetta voglia di felicità.

Sia tu che lei avete un non so che di cinematografico, per cui ti chiedo: quale film potrebbe avere come colonna sonora il vostro brano ma in generale il tuo nuovo disco?
Difficile. Io quando lavoro alle colonne sonore mi soffermo molto sulla luce, e in base a quello decido quali strumenti utilizzare, quindi sicuramente un film che ha il primo tempo oscuro e il secondo luminoso.

American History X, direi.
(Ride, ndr.) sì, azzeccato. Che poi la parte visuale in questo disco l’ha curata Pepsy Romanoff (Vasco Rossi, Sfera Ebbasta, GuéClub Dogo ndr.) che molto prima di me aveva capito che era diviso in due grandi parti. Lui è un artista coraggioso, oltre che bravissimo. Per questo abbiamo potuto sperimentare senza paura.

(L’ultima volta che ho visto a pochi centimetri da me Motta era in fila per ritirare gli accrediti per il concerto dei Verdena. Mi sorprese la sua umiltà, perché di norma gli artisti, quando sono in luoghi pubblici sono pieni di sè oppure sono in imbarazzo. In ogni caso lo percepiscono forte e chiaro il peso degli occhi addosso. Francesco invece, se si incrociavano gli sguardi con qualcuno, dava quasi l’impressione di non capire il perché ndr.). Che rapporto hai con il successo?
Prima parlavamo di Radiohead, del legame che connette musicalmente i miei gusti e quelli di Carolina. Ecco, pure i Verdena sono una roba di cui siamo entrambi super fan. E dunque quella sera ero felicissimo. I live sono stati infatti la cosa che più mi è mancata durante la pandemia, non solo i miei ma anche quelli degli altri. In merito al successo, posso dirti che in realtà non è che fatichi a camminare per la strada, anzi ti assicuro che è molto meno invadente di quel che la gente possa pensare. Mi spaventa invece il rapporto con ciò che mi riesce, motivo per il quale ho deciso di chiamare in quel modo il disco. La ridondanza di alcuni concetti musicali e testuali era la cosa che mi stava facendo morire dalla curiosità di andare altrove. La ripetitività è il pericolo più grande per un artista.

Perché, secondo te?
Perché in linea di massima se ripeti una cosa già detta, nella stragrande maggioranza dei casi era meglio come ti era uscita la prima volta.

Quindi hai trovato nel tuo passato qualcosa che non ti funzionava più, corretto?
Sì, è come se ad un certo punto non riuscissi più ad ascoltare la mia voce, gli arrangiamenti e tutto il resto. Era obbligatorio virare. So che te lo dicono tutti nelle interviste ma nel mio caso è davvero così. Arrivato al quarto disco ho la sensazione che la mia visione sia sempre più granitica, per cui se da una parte decido di aprirmi al cambiamento di tutto ciò che può essere sperimentato, dall’altra c’è l’accettazione delle cose – come la mia voce – che non posso cambiare.

(Non mi è chiaro come qualcuno possa non trovare stupenda la voce di Motta, anche se quel qualcuno è colui che la sente più spesso di tutti gli altri ndr.). Qualche anno fa è esplosa la moda del featuring internazionale. Tu per il tuo disco hai scelto artisti molto interessanti, per certi versi meno noti di te, quindi non era certo per fare la furbata. È una forma di onestà verso te stesso e verso la tua musica?
Semplicemente io non potrei fare la furbata perché con me ed il mio pubblico non funzionerebbe. Anche volendo non potrei mai fare in modo di creare una sinergia che possa far vedere la luce ad una hit estiva.

Avevi altri nomi in testa all’inizio, oltre ai loro?
Sinceramente no. Jeremiah aveva questo giro di accordi che poi è diventato Scusa. Nel caso di Willie (Peyote ndr.), avevo già fatto la base e ci siamo detti di provare a scriverci qualcosa sopra, senza la necessità di dover per forza cavare il ragno dal buco. Idem per Ginevra.

Con Truppi?
Con lui è stato diverso, perché in quel caso il brano era già pronto. Lui conosce benissimo mio padre, mia madre e mia sorella visto che per diverso tempo ho fatto parte della sua band come turnista e dunque ci siamo frequentati in modo più assiduo rispetto agli altri artisti dei featuring. Siccome il brano era scritto per mia sorella, volevo il suo intervento, il suo sguardo, la sua anima. Ed è uscito qualcosa di estremamente intimista.

Farai featuring anche in futuro?
Non lo so. Non me lo precludo ma purché si rispetti quanto detto poco fa: ossia la libertà di potersi permettere il lusso di non far uscire nulla di buono, e soprattutto che ci sia un legame e una chimica importanti. Se le canzoni non escono insieme, meglio evitare di forzare un punto di vista. Le collaborazioni sono una cosa seria. Non sono mai stato molto bravo nelle jam session, quindi o trovo delle coordinate con l’altra parte che possano generare qualcosa di nuovo e diverso dalle nostre realtà individuali, oppure meglio evitare. Io vivo per l’ascolto delle cose diverse da me. Quel che sono io lo so molto bene, ho bisogno di altro.

Ho visto che sei stato ospite della Roma allo Stadio Olimpico. Perché tifi la seconda squadra di Roma e non la prima?
(Ride ndr.) vedi, non avrei mai potuto tifare la Lazio perché credo di essere l’unico pisano con il babbo abbonato a Livorno a tifare Fiorentina, e c’è stato un giorno nel 1995 in cui staccai il poster a grandezza naturale di Batistuta a seguito di un 8-2 rimediato contro la Lazio. Questa cosa non me la scorderò mai.

Ti piace l’atmosfera da stadio?
Non l’ho frequentato molto negli ultimi anni ma in quell’occasione – in cui la Roma tra l’altro ha vinto 7-0 contro l’Empoli – sono rimasto stupito dal fatto che le facce, seppur anni dopo, con un calcio cambiato sotto molti punti di vista, erano sempre, in qualche modo le stesse.

(Mi passa per la testa una battuta: “sei un tipo da over”, ma di questi tempi, meglio evitare, sia mai che Corona intercetti la nostra call su Zoom ndr.). C’è qualcosa, oltre alla musica, che ti riesce veramente bene?
Faccio un ragù della Madonna.

A questo punto sento in cuor mio di non avere alcuna chance di chiudere l’intervista in un modo migliore. Lo saluto. Lo ringrazio. Gli auguro il meglio, come faccio sempre con tutti, ma questa volta – lo spero un po’ di più. Egoisticamente per me, altruisticamente per tutti, empaticamente per Francesco. Che lenisce quelle labbra screpolate e quest’anima da quel lontano giorno di fine marzo. E grazie a Dio che la musica non è finita.