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Stereophonics, l’indie (pop) che piace anche a Bob Dylan

Parlophone Records presenta il decimo album in studio degli Stereophonics. Ladies and gentlemen (rullo di tamburi): un album bellissimo e nel complesso ricco di influenze ed atmosfere diverse. La band di Cwmaman (Cynon Valley), che suonerà il 5 febbraio al Fabrique di Milano ha veramente confezionato un album capolavoro che, nella sua versione deluxe, aggiunge ai quattordici brani due versioni unplugged e due live. Un album leggero ma spumeggiante, che si lascia ascoltare malgrado spesso gli arrangiamenti raggiungano una complessità e una ricercatezza non propriamente mainstream. Caught By The Wind è un brano pop molto orecchiabile e radiofonico che di certo piacerà sia ai fan di vecchia data, che ai nuovi. Questo pezzo, insieme a Taken a Tumble (dove il ritmo è dominato da una chitarra choppata) e What’s All The Fuss About (dove addirittura la band strizza l’occhio al blues e ai fiati), costituiscono la prima triade di brani affini per mood. Tutto cambia con Geronimo (da 110 e lode con bacio accademico), un pezzo dal beat elettronico che lascia però spazio a chitarre distorte e sax fino a raggiungere nel finale una estetica da jam session. All In One Night mantiene – in vano – il mood e si lascia coccolare da arpeggi romantici e delicati, ma soprattutto dal timbro sabbiato di Kelly Jones.

Chances Are è invece un frankestein che ricorda distintamente gli U2 di How to Dismate an Atomic Bomb, per poi abbandonare la cassa dritta e virare su una ritmica che sa di brit pop seconda metà anni ’90 (Oasis, per intenderci). Sul podio (non è chiaro ancora su quale gradino) è impossibile non mettere Before Anyone Knew Our Name. Una ballad che ha le carte in regola per passare allo stadio di piccolo capolavoro. Ricorda Robbie Williams, ma più introspettivo e intimista per via dell’arrangiamento (scusate se è poco). Ok, ho deciso: è la migliore. Would You Believe? è un pezzo veramente interessante, anch’esso ricorda Williams. Le due tracce sono il punto più alto dell’intero album. Cryin’ In Your Beer di triste ha solo il titolo. È musicalmente incalzante e ballereccia, di quando per ballare si metteva il gettone nel jukebox. Molto rock & roll. Ma la festa finisce presto; arrivano gli accordi minori e languidi di Boy On A Bike, il brano più malinconico di Scream Above the Sounds. Elevators è quasi folk. Funziona e sicuramente resterà in testa.

Gli Stereophonics superano a pieni voti anche la prova live: Never Going Down eseguita nei RAK Studios è una perla. Come anche Drive A Thousand Miles, un pezzo estratto dalla Graffiti Session che con le sue note tese ricorda in certi punti Mattew Bellamy dei Muse. La chiusura dell’album è anni Ottanta. Breaking Down si mostra in tutto il suo ellenismo sonoro: con synth porosi e una drum machine da dance floor del Piper. Gotico e cupo, in certi punti, il pezzo sembra quasi uscito da un’altra dimensione. Ci troviamo davanti a uno degli album più interessanti degli ultimi tempi e della carriera degli Stereophonics. Ascolto d’obbligo e acquisto consigliato. D’altronde un certo Bob Dylan si era complimentato con loro qualche tempo fa. Questo ci permette di procedere col voto più a cuor leggero: quattro stelle su cinque. La perfezione non esiste.